I dialétt dla pruvénzia e dintûren
I dialetti della provincia e dintorni


In ste Sît arénn chèr ed publichèr anc dal materièl só i dialétt dal sått-grópp bulgnaiṡ difarént da quall dla Zitè - In questo Sito ci piacerebbe pubblicare anche del materiale sui dialetti del sottogruppo bolognese differenti da quello cittadino:

Clasificaziån - Classificazione
Artéccol - Articoli
Èter materièl par studièr - Altro materiale di studio
Poeṡî e racónt - Poesie e racconti


Classificazione - Clasificaziån

Secånnd la clasificaziån ed Dagnêl Vitèli, vgnó fòra int l artéccol scrétt con Luziàn Canepèri Pronuncia e grafia del bolognese, in: Rivista Italiana di Dialettologia, RID 19, 1995, pp. 119-164, sti dialétt i én:

1) i dialétt canpagnû ed sîra (pr eṡ. San Żvân, Bażàn e, in pruvénzia ed Môdna, Castelfrànc)
2) i dialétt canpagnû ed matéṅna (pr eṡ. Mnêrbi, Bûdri, Mulinèla)
3) i dialétt canpagnû ed såtta (pr eṡ. la Pîv ed Zänt, Galîra e, in pruvénzia ed Frèra, Zänt)
4) i dialétt muntanèr ed mèż (pr eṡ. Grizèna, Munżón, Dscargalèṡen)
5) i dialétt muntanèr èlt (pr es. Liżàn, Castión di Pêpol e, in pruvénzia ed Pistòja, Pèvna e Castèl ed Sanbûca)

Secondo la classificazione di Daniele Vitali contenuta nell’articolo scritto con Luciano Canepari Pronuncia e grafia del bolognese, in: Rivista Italiana di Dialettologia, RID 19, 1995, pp. 119-164, si tratta di:

1) dialetti rustici occidentali (ad es. San Giovanni in Persiceto, Bazzano e, in provincia di Modena, Castelfranco)
2) dialetti rustici orientali (ad es. Minerbio, Budrio, Molinella)
3) dialetti rustici settentrionali (ad es. Pieve di Cento, Galliera e, in provincia di Ferrara, Cento)
4) dialetti montani medi (ad es. Grizzana Morandi, Monzuno, Monghidoro)
5) dialetti montani alti (ad es. Lizzano, Castiglione dei Pepoli e, in provincia di Pistoia, Pavana e Castello di Sambuca)


Artéccol - Articoli


Èter materièl - Altro materiale
 

 

Glosèri ed Stefano Rovinetti Brazzi (int la sô grafî, cfr. såtta) såura la lavuraziån dal furmintån int la żòna ed San Gabarièl, cmón ed Bariṡèla. Ècco l'introduziån dl autåur - Glossario di Stefano Rovinetti Brazzi (nella sua grafia, cfr. sotto) sulla lavorazione del mais nella zona di San Gabriele di Baricella. Ecco l'introduzione dell'autore:

Pubblichiamo una seconda edizione, rivista ed ampliata, del lessico relativo alla semina e alla lavorazione del mais, già disponibile su questo sito a partire dal giugno 2008. Rispetto alla prima edizione sono stati approfonditi gli aspetti tecnici relativi alla semina, alla crescita e alla lavorazione del prodotto. Nel tentativo di registrare e salvare quanto più è possibile del lessico e della fraseologia, abbiamo cercato di risalire quanto più è possibile indietro nel tempo e abbiamo inserito testimonianze sulla lavorazione del mais prima dell’introduzione delle macchine, nella misura in cui le testimonianze dei nostri informatori lo consentivano. E ancora una volta, come già spesso nel corso delle nostre ricerche, ci siamo stupiti della persistenza nel corso dei decenni e talvolta dei secoli, delle memorie trasmesse oralmente: gli informatori infatti inseriscono nelle loro testimonianze citazioni, notazioni tecniche sull’uso di materiali e strumenti, ricordi, fatti e aneddoti spesso risalenti ai loro genitori e ai loro nonni e così interessanti e vivi che ci è parso doveroso utilizzarli per la stesura di questo lessico.

Le informatrici, eccellenti parlanti native del dialetto di quella zona, sono Lodia Regazzi (n. 1922; il nome è abbreviato in LR) e Claudia Stegani (n. 1931; il nome è abbreviato in CS) entrambe nate e cresciute a S.Gabriele di Baricella; Ci siamo serviti anche della consulenza di Benito Bertorelle nato a Maddalena di Cazzano nel 1937 (il nome è abbreviato in BB). Le interviste sono state rilasciate fra l’inizio di gennaio e la fine di dicembre dell’anno 2008. Ogni lemma reca la traduzione in italiano, che spesso comprende una breve nota esplicativa di carattere tecnico, storico od etnobotanico, ed è corredato dalla trascrizione del passo dell’intervista dal quale è stato tratto o delle spiegazioni fornite da Claudia Stegani durante la stesura delle singole voci; entro parentesi tonde sono inserite le integrazioni necessarie a comprendere, nel giusto contesto, i passi delle interviste. Nel lessico sono stati inclusi anche termini d’uso comune che, nel nostro contesto, assumono un valore particolare. Si può ascoltare una delle interviste effettuate collegandosi con
http://stefano.rovinetti.brazzi.googlepages.com/home 

Par lèżer al glusèri (secånnda versiån, dal mèrz 2009) - Per leggere il glossario (II versione, del marzo 2009): clichè qué - cliccare qui

Glosèri ed Stefano Rovinetti Brazzi (int la sô grafî) såura la lavuraziån dla cânva int la żòna ed San Gabarièl, cmón ed Bariṡèla. Ècco l'introduziån dl autåur - Glossario di Stefano Rovinetti Brazzi (nella sua grafia) sulla lavorazione della canapa nella zona di San Gabriele di Baricella. Ecco l'introduzione dell'autore:

Questo lessico sulla lavorazione della canapa nella bassa pianura nordorientale ubbidisce agli stessi criteri già adottati nel lessico sul ciclo del mais: per ogni lemma si danno una traduzione in italiano, spesso accompagnata da note esplicative di carattere storico, economico e antropologico, e i passi delle interviste che documentano il termine e l’accezione in cui è impiegato. Un trattino orizzontale seguito dalle iniziali del nome degli informatori indica l’inizio di una nuova testimonianza; se al dialogo partecipano più informatori contemporaneamente, le loro battute sono introdotte dalle iniziali del nome non precedute dal trattino orizzontale. Gli informatori, ai quali va il mio ringraziamento per la disponibilità e la pazienza dimostrate nell’intero corso della ricerca, sono i seguenti:

Bolognesi Aristide, nato a S.Bartolomeo (FE) nel 1920
Martelli Leda, nata a S.Gabriele di Baricella (BO) nel 1922
Regazzi Lodia, nata a S.Gabriele di Baricella (BO) nel 1922
Stegani Claudia, nata a S.Gabriele di Baricella (BO) nel 1931
 

Par lèżer al glusèri (versiån dal setàmmber 2009) - Per leggere il glossario (versione del settembre 2009): clichè qué - cliccare qui
 

 

Allora non c’erano i congelatori...
Alla ricerca di un fungo dimenticato

Testo e foto di Piero Balletti
(Nuèter, N° 56, dicembre 2002, N. 2, Anno XXVIII)

Un paio di anni or sono condussi un’indagine sui nomi popolari con cui vengono indicati i funghi nella terra di Sambuca. L’occasione di tale ricerca fu data dalla preparazione di un contributo naturalistico per il volume Storie della Sambuca, pubblicazione promossa dalla locale Amministrazione comunale. I residenti consultati, per lo più di età matura, fornirono notizie che considerai interessanti e stimolanti.

Raccolsi i nomi locali di quindici specie fungine, scelte fra le più comuni e le più conosciute ai fini alimentari o al contrario per l’estrema tossicità: ed apparve subito evidente che, per la maggior parte di esse, c’era una nomenclatura estremamente variabile. Infatti, in nuclei abitati distanti fra loro pochissimi chilometri o addirittura poche centinaia di metri, uno stesso fungo veniva indicato con nomi diversi. Esemplificativo è il caso del Porcino, detto ciopadèllo a Pàvana, con le varianti ceppatèllo all’Acqua, ceppadèllo a Treppio, cioppadèllo a Pòsola, ciupadèllo a Caviana; mocciardóne al Monachino; ed infine fungo, per antonomasia, a Torri, Frassignoni, Lagacci. Ancora più variabile, da un punto di vista nomenclaturale, la Mazza da tamburo: galéjola a Pàvana, búbbola a Treppio, pisciacáni o barúgiola a San Pellegrino, i fráti a Lagacci, spía a Frassignoni, fungáccio a Torri. Per finire il Poliporo frondoso detto barbagíno a Lagacci, barbajín a Castello di Sambuca, a Pàvana ed a Pòsola, fungagníno a Frassignoni, grífale a Torri ed a Treppio, grífalo al Monachino, grífo o grifóne a San Pellegrino.

Assieme ai nomi dialettali dei funghi ho raccolto gustose e significative notizie sull’utilizzo dei funghi in epoche ormai lontane, testimonianze di eventi vissuti dagli informatori quando ancora erano bambini. Ugo Pistorozzi di Pàvana osserva che una volta si raccoglievano solo i ciuppadèlli, i galétti, i còcchi e i barbajíni: «ce n’erano tanti di questi tipi, perché dovevamo raccogliere gli altri?». E ricorda anche che i suoi genitori lo rimproveravano se raccoglieva troppi funghi; non si poteva utilizzarli tutti ed era poi un peccato doverli buttare via!

Dice Guido Brizzi di Lagacci: «I barbajini crescono sui castagni e pesano fino a nove chili. Allora non c’erano i congelatori..., per conservarli si mettevano dentro una vasca d’acqua e si cambiava l’acqua ogni sette o otto giorni. Tagliati a fette sottili, venivano lavati e lessati; e poi impanati e fritti». Secondo Sergio Cioni di Castello di Sambuca i barbajíni fritti si mangiavano con i nécci.

In questa ricerca, condotta come detto due anni or sono, era rimasto però un “buco nero”, costituito da una specie misteriosa, resistente ad ogni mio tentativo di identificazione: si trattava di un fungo che gli informatori di Frassignoni, Lagacci e Pòsola indicavano come i gózzi.

Secondo i “posolanti” Giuseppe Cecconi e Luciano Bartoletti i gózzi sono funghi autunnali con il cappello di colore crema o marroncino e carne soda, che crescono in tutti i tipi di bosco e si trovano per lo più “a covate”. Conservati dentro recipienti colmi d’acqua che veniva “tramutata” ogni giorno, comparivano spesso sulle tavole nei mesi autunnali, dopo essere preparati fritti oppure “trufolati”. A mia precisa I "gózzi" (Tricholoma acerbum) domanda aggiungono che un tale Giovanni, l’unico forse in tutta la Sambuca!, ancora raccoglie questi funghi ormai dimenticati.

Secondo una non più giovane ma vivace signora di Pòsola, «i gózzi sono fungacci indigesti» e lei non dimentica quella volta che, dopo averli mangiati, vomitò ed il vomito non smetteva mai; e «dopo di allora i gózzi non li ho più mangiati».

 Secondo Loriano Catani, originario di Frassignoni: «I gózzi si trovavano a partire dalla fine di settembre nei castagneti quando questi erano ancora puliti; crescevano a file o a gruppi, soprattutto lungo le ròste (le ròste sono piccoli solchi che venivano scavati nei castagneti per impedire alle castagne di ruzzolare a valle e per facilitare così la loro raccolta. N.d.A.). Di gózzi ce n’era tanti e mia nonna ne raccoglieva in quantità enormi mettendoli nel grémbio. Poi a ciascun fungo eliminava il gambo, tagliava il cappello a fette e, dopo averli lessati, li poneva nelle cónche sotto le grondaie, ove si raccoglieva l’acqua piovana. L’acqua veniva così cambiata spesso ed i gózzi potevano essere conservati per più settimane. Poi, durante il tempo in cui maturavano le castagne, mia nonna li raccoglieva con un ramaiolo, li metteva in un canovaccio per asciugarli, li infarinava e li friggeva. Una volta cotti diventavano scuri ma la polpa rimaneva soda. E buoni che erano!».

La voce gózzi, presente nelle tre borgate sopra elencate, che si trovano nella valle del Reno, è del tutto sconosciuta in altre zone della Sambuca. Poiché non avevo avuto la possibilità di osservare il fungo “dal vero”, le notizie e le informazioni raccolte non mi permisero di identificarlo.

Poi successe un fatto nuovo; uno studioso reggiano, Ulderico Bonazzi, che sta preparando un Dizionario dei nomi dialettali dei funghi in Italia, mi scrisse chiedendomi di comunicargli i risultati della ricerca effettuata nella Sambuca. Cosa che feci ben volentieri. Egli rispose ringraziandomi ed apprezzando il lavoro da me fatto; mi sollecitò tuttavia ad inviargli il nome scientifico dei gózzi. Stavo per rispondergli (la corrispondenza avveniva tramite posta elettronica) che purtroppo non ero in grado di fornirgli quella notizia. Ma feci prima un ultimo tentativo; mi recai da Loriano Catani con una capace cartella contenente diversi volumi con descrizione ed illustrazione dei funghi italiani. Era mia intenzione fargli esaminare i vari disegni e figure, alla ricerca dell’immagine corrispondente al fungo misterioso, per poterne determinare così il nome scientifico. A dire il vero, non avevo molte speranze. Ma appena gli accennai al probema dei gózzi: «Vieni con me, li ho visti ieri nel castagneto!», mi disse. Salimmo sulla sua Panda 4x4 e ci dirigemmo, per una strada a monte di Pàvana, in direzione della Torraccia. «Speriamo che non li abbiano portati via!», aggiunse mentre si inoltrava fra gli alberi. Lo seguii scrutando, un poco scettico, fra le foglie del sottobosco. Ma dopo poco mi chiamò e dal tono della voce capii che li aveva trovati. Nel cavo delle mani unite aveva dei funghi dall’aspetto massiccio, anche se di piccola taglia; «Eccoli, i gózzi!». A prima vista non li riconobbi, anche se ebbi la sensazione di averli già visti in precedenza. Ritornati a casa, i volumi che avevo portati risultarono utili. Dal portamento robusto e dall’attaccatura delle lamelle al gambo assegnai il fungo al genere Tricholoma; sfogliando invece i “sacri testi” identificai la specie come Tricholoma acerbum.

Ecco un sunto della descrizione del fungo riportata dai vari autori:

Tricholoma acerbum: Cappello dapprima convesso e poi spianato, giallognolo ocraceo, orlo dapprima molto involuto, poi disteso e striato, a carne spessa e compatta, bianca, amarognola ed acidula al gusto, cuticola facilmente separabile. Lamelle fitte, smarginate, che al tocco si macchiano di fulvo. Gambo corto e robusto, superiormente con fioccosità gialline. Habitat: in boschi misti, diffuso ma raro. Commestibilità: secondo il Cetto è commestibile mediocre, ma abbastanza apprezzato in diverse zone. Altri Autori lo definiscono tossico, o al più utilizzabile dopo lunga cottura e comunque molto scadente.

Riguardo alla commestibilità ed appetibilità del Tricholoma acerbum, una posizione alquanto diversa prendono i curatori del volume I nostri funghi, Genova 1981, che scrivono: «(Si trova) soprattutto in boschi di castagno, durante l’epoca di maturazione dei loro frutti, il che può giustificare il loro nome dialettale (in ligure, castagnaiêú). È commestibile, moltoI "gózzi" (Tricholoma acerbum) adatto alla conservazione. Il Castagnaiolo non è dappertutto conosciuto ed apprezzato come in Liguria, ove è oggetto di una ricerca assidua, soprattutto per le sue ottime caratteristiche di fungo adatto alla conservazione, anche se il sapore è un poco amarognolo».

Lieto del felice esito della “operazione gózzi” comunicai al ricercatore reggiano il loro nome scientifico, corredando lo scritto con una fotografia degli stessi.

Per avere tuttavia la certezza di non aver preso una cantonata, spedii la foto anche a Nicola Sitta. Belvederiano di adozione, Nicola è un micologo professionista ed uno dei più preparati conoscitori del mondo dei funghi in Italia, sia sul piano teorico (fanno testo importanti pubblicazioni) sia sul piano pratico di riconoscimento di specie fungine. Gli chiesi conferma della correttezza della mia determinazione, operazione che è sempre piena di insidie per l’appassionato dilettante. Egli, con tacitiana concisione, rispose: «Evidentemente Tricholoma acerbum! L’ambiente del castagneto è ulteriore conferma».

Ed a quel punto ritenni la storia dei gózzi veramente finita.


Poeṡî e racónt - Poesie e racconti

Dialàtt ed Mulinèla - Dialetto di Molinella

Poesie di Claudio Pasi dedicate agli animali e pubblicate dalla rivista Filigrane

La lîvra

Cla vôlta ch’a ciapé sòtta la lîvra
con la Uno zelèst – l’êra una sîra
ad nèbbia féssa, un’âlma par la strè –
l amîg ch’l êra con mé, che adès l é môrt,
l um gé: «Dâi fèirmat, ch’a la tulèn só
e a s la magnèn admàn con la pulèinta».

Mo al fó pò un ètar che con un curtèl
al tajé in tònnd la pèl dal zanp ad drî,
a la dscurdghé, ai cavé vî la plézza,
e cómm in cròuṡ al la lighé a un stanghètt
par fèr ṡguzlèr al sangv, e a vdénn acsé
che int la panza l’avêva dû livrén.

Al pasarén môrt

Zighê zighê, divinitè dl amòur,
zighê vó bèla żèint inamurè:
al pasarén dla mî anbròuṡa l é môrt,
al pasarén ch’l êra la sô delézzia,
che lî la i vléva bèn pió che ai sû ûc’.
L êra pió dòulz dal mêl e a l’arcgnusêva
pròpi cómm una cínna con sô mèdar,
e pò an s muvêva brîṡa dal sô grèmmb,
mo saltànd in zà e in là coi sû zanpén
sòul a la sô padròuna al pipiulêva.
Adès ló l é drî andèr par na strè bûra
d’in dóvv, as dîṡ, inción l é mai turnè.
Ch’at véggna un mèl, che té t sépp maledètta,
nòt d infêran che t dsfè tótt quèll ch’l é bèl:
té t um è purtè vî un bèl pasarén.
Mo che dṡgrâzia! Mo pôvar pasarén!
Adès par còulpa tô i ûc’ dla mî anbròuṡa
i én gùnfi d lègrum, i én dvintè tótt r
óss.

(da Catullo, 3)

Di ètr uṡî

Al fó un uṡlén ṡbliṡghè żò par la câpa
dal camén ch’al frulé dèintr ala stanzia
e al tinżé ad nèigar tótt i linzû dstîṡ.

Cla gâża che la bchêva i braghén róss
dal putén dl Anna, i i an catè int al nîd
ptón, munèid, quêrc’ ad bérra, un pèr d urcén.

Dòpp ch’i avêvan finé ad ṡghèr al prè,
stramèż al’êrba ai êra sèimpr un mêral
ch’al tgnêva strécc int al bèc un lunbrîṡ.

Ai piaṡêva d andèr a zòp galètt,
e sô nòna ridànd la i dêva drî
e la gêva: «Vîn qué, vîn qué, garlûda!»


Dialàtt dla Pîv - Dialetto di Pieve di Cento

Poesia dedicata al conferimento della bandiera arancione alla Pieve da parte del Touring Club nel 2019 (per saperne di più)

ed/di Edoardo Bargellini

La Pîv

Stà pûr cuntĕnta, oh Pîv, che t ìa acsé granda
che in tótta la pruénzia, fén da dnanz a
Môdna, San Żvân, infén a cl'ètra banda,
sŏul té bandîra ed culŏur mlaranza!!!
Con quâter bèli pôrt ch'i t fan grilanda
d intŏuren, la tô cîṡa, quall ch'avanza
dla ròca e tótt al rèst, t ìa, e ala granda,
na bèla zitadénna! E la speranza
l'é qualla ed migliorèr, ed cràsser anc,
cavalcànd l'ŏnnda ed ste prèmi specèl;
se un quèlc turéssta as pôrta pó dû franc
nó a i tulĕn, a n s n avĕn pó méa par mèl!
Sŏul un guâi a g é suspĕiṡ, parchĕ g n é un branc:
che biṡgnarêv cupèr tótti el zinzèl!

Poesia dedicata alla riapertura della chiesa di Pieve il 25 dicembre 2018 (era stata chiusa a causa del terremoto del 2012)

ed/di Edoardo Bargellini

Al Cruziféss

El spén in cô, inciudèdi el man e i pía,
t ìa al nòster cruziféss, quall di mirâcuel:
par té in dimónndi i vînen fén da vía

e i pivîṡ tótt i t tînen cme un urâcuel.
Pr al teremòt ch'ag fó sî ân indría
i t tirénn żŏ da sŏuvr al tabernâcuel;

e i t an tgnû pió d un lósster fòra vía,
come t fóss stè par socuànt ân in fêri,
par psĕir giustèr, e brîṡa bâsta ch'sía,

la cîṡa, vésst che al dân l êra un quèl sêri.
Adès la tô cà l'é turnèda a pòst
e dŏpp avĕir pasè ste putifêri

et pû turnèr chiêt chiêt ind al tô pòst.
Zêrt a sperêven ch'et turnéss pó prémma
mo ala fén la và bĕn acsé, e piotòst
avĕn da ringrazièr che t sépp là in zémma,
prémm testimòni. Sé, parchĕ da bŏn
al fât pió grand ch'al m à ispirè ste rémma

l é al pensèr che dala tô puṡiziŏn
quî dla mî râza té t ai è vésst tótt,
da ormâi bèle pió ed trĕi generaziŏn,

ind i mumént pió bìa e in quî pió brótt:
ch'fóss crĕiṡma opûr batàżż cm êra custómm,
comegnŏn, matrimòni opûr un lótt,

ch'fóss pr un Pâter o sŏul pr inpièr un lómm,
té t êr sĕnper là só, cŏn i tû ûc' trésst
e la tô fâza bâsa quèṡi cómm

s'et vléss dîr: "a n sŏn inción... sŏul al Crésst".
A vlĕir cuntèr i fât acsé cum i én
a dégg che sŏul té t sè quant t an è vésst
di Govôni, Cavécc' e Canpanén
in zintunèra d ân, dnanz al altèr,
da quand i t truénn in cà da Guidizén...

E incúa, par mèż ed té, a psĕn festegèr
un gran mumĕnt: la Pîv, ch'l'é al nòster branc,
cŏn i ajût, l'onestè e la vójja ed fèr,

l'é fâta a nôv; e nó a sĕn ón ed fianc
a cl èter, incúa. Écco la morèl:
che d chi èter an s pòl brîṡa fèr da manc.

Un tructén d egoîṡom l é normèl,
e anc se zertón i n an un pôc de pió
l inpurtànt l é capîr che, bĕn o mèl,

ón al mŏnnd al n é brîṡa da par ló.
Pensĕn al cà ch’i én dĕntr al quâter pôrt:
i én zĕnza fondamĕnta e i stan só

parchĕ ónna ed fianc a cl'ètra i s dan supôrt.


Dialàtt d Altai - Dialetto di Altedo

A j êran zîrche a cavâl dal ‘70. An dégg brîṡe l’ân prezîṡ e an fâg brîṡe i nómm, parché an voi brîṡe stuzighèr j arcôrd e manchèr ad rispèt a inción, vîv e mùrt)

Altài. L’ûltme tamplè

ed/di Enrico Grimandi (cum l à scrétt l autåur/nella grafia dell'autore)

Quant un vàdduv as turnève a maridèr a j êre l’uṡanze ad fêr la tamplè ai spûs. I bulgniṡ ad zitè i la ciâman “maitinè”, mo l’è sänpar qualle. Cum a vdrî in sêguit …. una gran gatêre.
Un cuntadèn cal stève sóbbit fôre dal paaiṡ e cl avêve bêle maridè da un pèz al såu fiôli, l avanzé vàdduv e sebàn cal n avéss quèṡi una stantìne, l avêve anc in gîr di ṡburziglèn (adèss as dirè in itagliàn “tempeste ormonali”) e al pinsêve ad turnéras a maridèr.
As dè un’ucè d intåuran e a dîr la veritè an i êre brîṡe un gran ché a dispuṡiziòn cal fóss adât a lò e che äli piaṡéss. Dal vàddvi ai n êre una bone partîde, mo j’êran tótti o tròp scalastrè o con di anvudèn d arlivèr o con d ali ètar dṡgrâzi a man. Al n êre pròpi brîṡe al chèṡ d andèr s a méttar di pinsîr. Dal rèst as rindêve cåunt can psêve brîṡe pretàndar dla rubîne frassche e as cunsiè coi sû amîg.
La ciâcre l’andé fôre e un quaicdón as méss in mèż a fêr da rufiàn e äli fé nutèr c a j êre la sêrve d un dutåur, zîrche dla sô etè e in salût, cl an avêve mai avò maré e fôrsi gnanc l ambråus !
Insòmme par fêrle cûrte, i rufiàn i lavurénn bän e j i méssan insàmm. E pò ai véns fôre al publicaziòn !
Alåure ai parté l organizaziòn dla tamplè e as riuné al cumitèt int l ambulatòri dal dintésste. Tótt d acôrd, j al numinèn presidänt, anc parchè j avêvan pôre ad fêri dspèt … vésst ch l êre lò a trapanèri e a cavèri i dént !
As furmé quâtar scuèdar e ogni scuèdre l’avêve al sô capurèl.
La prèmme, cl avêve d arivèr da matîne, l êre qualle di quêrc’ e dal pniât.
E vuètar a dirî: “ Bän mò cs avêvle da fêr ? Da cûṡar al tajadèll ?”
Nò, an i avî brîṡe ciapè. L avêve da fêr ciucher i quêrc’ , al pniât e i pniatèn.

La secònnde l’ êre qualle di stuflarén e di canpanén e l’avêve d arivèr dal in só. A j êre di stuflarén ad tótti al fâte. A tachèr d’ äli ucarîn ai stuflarén con la balîne int l’acue, chi fêvan al vèrs di ruṡgnû, in fén a dal pîv ad tótti al miṡûr fâti in cà con la scôrze di vénc. E pò a j êre i canpanén d ogni sôrte fâte e i canpanàz dal bargamîn.

La terze l’êre qualle di bidón ad lâte cl’avêve da gnîr d in żò.
Con di pîz ad laggn l’avêve da ṡbatar di bidón ad benzîne tajè a mèż, di bidunzén e di buslût ad lâte ad tótti al miṡûr, cme di tanbûr.

L’ûltme, cl avêve da gnîr da sîre l’êre qualle di ciûc e di bóss.
L’avêve suquànt canón (1) e di parpignàn (2) e pò a j êre anc un ciarrg cl avêve tòlt in prèst (d arpiât) la scarabâtle al canpanèr (3). Int la scuedre as êre pò żuntè un quaicdón con dal castagnôl e di cic-ciâc, mo brîṡe con la stiòpe : al dintèsste al l’ avêve pruibè parchè l êre tròp priglåuṡe.

E vuètar a dirî: “ Bän mò l’è un’urchèstre !”
Ói bän, stavôlte a j avî ciapè! L’êre pròpi un’urchèstre, anc parché al dintèsste l avêve cunsgnè ai quâtar capùrî un fujàtt pròn con i tenp d aziòn d ogni scuèdre. Un sparté … da òpere!

Al dé dal matrimòni, finè al nòz, vèrs sîre, stra al lòmm e al scûr, as tachè a vàddar in paaiṡ un rigîr c al n êre brîṡe normèl. As vdêve pasèr dla żänt a pî con di scartûz sänpar grànd e in biziclàtte con di spurtón atâc al manòbri e tótt i taṡèvan ! Inción dscurêve e l andêve par la sô stre, in żò, in só, in a matîne e in a sîre, sänze dîr gnìnt.
J andèvan tótt a tûr puṡiziòn in mèż al frutett ca i êre tuchè, a zirche tarṡant mêtar d intåuran a la cà di spûṡ. Alåure Altai l êre tótt un frutett !

Quant al guintè bûr e int un gran silànzi as sintêve såul i ranûc’, al dintèsste al dè l åurdan ad tachèr.

Alåure ai partè la scuèdre di ciûc e di bóss e sóbbit dòpp qualle di bidón e di buslût.
Dòpp a sucuànt minûd i dṡméssan ad pâche e ai tachè a sunèr la scuèdre di stuflarén e di canpanén e a j andè drî qualle di quêrc’ e dal pniât.

In st mäntar che al scuèdar is dèvan da fêr a fêr dla gatêre, dàndas al canbi, cum a j êre scrétt int al fujàtt che al presidänt l avêve dè ai capùrî, pian pianèn al zairc al s asvinève a la cà di spûṡ, arpiatè in mèż al frutett.
Quant j arivèn a una cincuantìne ad mêtar da la cà di spûṡ al scuèdar is farmèn e i tachèn a fêr dla róggie tótti quâtar insàmm.
Av psî imażinèr al diavlêri stra canpanèn, quêrc’, bidón, ciûc, bóss .. e anc quel ètar. Ròbe da fêr guintèr mât e fêr stiupèr äli uràcc’ e al zarvèl.

Alåure a s apiè la lòmm int la cåurt adnanz a cà, i spûṡ i vîrsan la pôrte e vensan fôre con un zucòn ad vén chi pugénn in vatte a una calâstre che j avêvan preparè prèmme (as vadd che una quaic spéjje äli avêve infurmè).
Quant al vésst acsè, al presidänt dintèsste al dè l åurdan ad farmèr incôse. I “sunadûr” i dṡméssan ad tamplèr i sû strumènt, i saltén fôre dal frutett da tótti al band e, tótt cuntént, i tachén a fêr j auguri ai spûṡ e a bòvvar a canèle dal bigât al vén dal zucòn. Sughè al zucòn, ognòn al turné a cà sô coi sû żdûz e i spûṡ i psénn apusèras in pèṡ.

La tamplè l’êre finé ! L’êre duré såul un’ åure parchè i spûṡ j êran stè al żûg ! S j avéssan fât i sparfidiûṡ, ins fòssan brîṡe fât vàddar e i n avéssan brîṡe ufért da bòvvar… alåure sé che la tamplè la srêv andè drètt infèn a matîne. Fôrsi l è par quàst che i bulgniṡ ad zitè i la ciâman “maitinè”!

1) Canòn (pl. canón) : I êre un cadnàzz atâc a un âs che, con la stàsse môse cme par cadnazèr un óss, as i fêve ṡbàtar la pónte in vatte a una cupàtte ad fèr in duv a j êre un méssti ad såulfne e pòllvar naigre. Al fêve l efèt d na stiuptè e i cuntadén j al druvêvan par ṡmarir i sturnî int al furmànt e int l û.
2) Parpignàn (pl. parpignàn) : l êre una frósste longhe ad curàm che, a savairle druvèr bän, la fêve al ciòc e las druvêve par der sò al cavâl dla dumadåure.
3) Scarabâtle (pl. scarabâtal) : l êre un âs con dal manàtt ad fèr atachè con di ucètt e, scuduzàndal, al manàtt i ciuchèvan in vatte a l âs. As druvêve in cîṡe in pòst dal canpèn quant , int la Stmène Sante, al canpèn j êran lighè.

Andrícco Mazalòm

A j êran zîrche a cavâl dal ‘30. A j êre dla gran miṡêrie in gîr!

Altài. L asèlt al vapurén

ed/di Enrico Grimandi (cum l à scrétt l autåur/nella grafia dell'autore)

A j êre trai scuèdar. Qualle di insavunadûr , qualle di ṡmadunadûr e quale di arpghén.
La prèmme a méttras in aziòn l êre qualle di insavunadûr. L êre messe insàmm da quâtar o zénc cìnno che j avêvan ciufè d arpiât sucuànti scâi ad savòn da bughè int la bugadarî ad famajje. Las mitêve in aziòn quant a j arivêve ad cåurse da la stazion d Altài al cìnno ad vedatte con la nôve che l ûltum bruzâi l êre bêle andè in paiṡe e l êre drî a dscarghèr. La staziòn l’êre zîrche a mèż chilometar da la râte ad Sêvne (1) e ans psêve brîṡe tachèr tròp prèst a insavunèr parché se nò l’ insavunadûre la se schêve e l efèt l êre piò ardótt.

Vuètar a dirî: “Bän mò csa farêni sti cìnno col savòn aṡvèn a la râte ad Sêvne? Is lavaràn o fôrsi, par ṡburdlèr, i lavaràn al sumàren ?”
Nò, an i avî brîṡe ciapè ! Is preparèvan a insavunèr al rutai !
E vuètar a dirî : “Mò che brèv ragazû chi tinan natte la ferovî “
Nò, an j avî brîṡe ciapè gnanc stà vôlte e adès av dégg al parchè e al parcòmm.

Da agòst a utàbar al vapurén che da Malalbêrg l andêve a Bulaggne pasand da Altài, Bariṡèle e Mnêrbi, l avêve sänpar sucuànt vagón avêrt in duv i carghèvan al barbabiétt pr al zucarifèzzi ad Bulaggne, cl êre pròpi lè ad drî da la staziòn zentrèl. I êran di vagón spezièl con la guardiòle; un gabiòt tachè a l ûltum bandón dal vagòn in duv ai stève al guardiàn frenadåur, drett in pî cme un sardón in scâtle. Quant al vapurèn, coi vagón carg ad barbabiètt, l arivêve al pônt cal cavalêve Sêvne al tachêve a ṡbufèr e al fêve una gran fadìghe arampgàndas sò par la râte.
Imażinèval só pr al rutai insavunè ad frassc che ogni tant j i fêvan dèr un quàic ṡbliṡgòt ai rudón. As pò dîr che int la râte l andès dabòn a pâs ad lumèghe.

Alåure as mitêve in ôvre la secònnde scuèdre: quale di ṡmadunadûr. Òt o dîṡ ragazù un pô piò grandèn, arpiatè ad drî dal zèd ad spèn bianc ad bande dla râte, i tachèvan a tirèr di sâs e di madón al guardiòl par mod che i guardiàn in s insugnèsan gnànc ad mèttar fôre al nèṡ. I ṡmadunadûr is ciamèvan acsé parché quant i finêvan al muciadèn ad sâs che j avêvan arpiatè, tulandi vî da la ferovî, j andevan a madón. E lè ai n êre infen c as vlêve… e pò l’êre anc tère gròse !
In st mäntar che i povàr guardiàn i stèvan bän asrè int al guardiòl par vid d an ciapèr una ṡmaduné int la frònt e al vapurén al s arampghève sò par la râte, a j entrerêve in aziòn la tèrze scuèdre; quàle di arpghén.
Étar quâtar o zénc ragazù, i pió sparlungón, i saltèvan fôre d ad dòpp dal zèd con di arpghén lighè ad cô da una pêrdghe e i tirêvan żò dai vagón tótti al barbabiétt chi psèvan prème che al vapurén al cavalés Sêvne.
Quant l asèlt l êre finé e al vapurén l êre bêle adlà da Sêvne e vî cl andêve a la bâse vers Bariṡèle un pôc piò alżîr, tótti al squèdar i fêvan al pèrt dal barbabiétt spargujè ad bande dla la râte. J asaltadûr i stèvan quèsi tótt int la Cåurt ad Piâzz (2) e i turnèvan a cà in dû e dû quâtar con una brazè ad barbabiétt che i tajèvan a pzulén col pudàt e pò i dêvan da magnèr par sucuànt dè ai cunén, al ninén e al galîn.
L êre tótte pôvre żänt che con chi dû suldén chi fêvan só vindànd i cunèn, äli ôv e i capón al pulinaròl, i psêvan cunprèr un grinbalòn nôv dal marzèr o fêr fêr al calzulèr un père ad scarpén pr i fangén. Col ninén invêzi, una vôlte inftè, una famajje la tirève inànz un ân.
L asèlt al vapurén a la râte ad Sêvne da pèrt d’una ghènghe ad ragazù, con la rubarî ad sucuànti barbabiétt, a la fén al dêve una man a un’economî da miṡêrie e tótt, in famajje e int al paaiṡ, i srèvan un òc ... e anc tótt dû ! Anc i carabinîr.
Tant al barbabiétt di cuntadén j êran bêle stè bṡè a la paiṡe dla staziòn d Altài; chi armitêve int al paiṡ j êran såul i sgnurón, padrón dal zucariffèzzi ad Bulaggne e a inción…. ai gnêve di scróppal.

(1) Sêvne : Al canèl ad Sêvne
(2) Cåurt ad Piâzz : Burghè ad brazént

Andrícco Mazalòm


Dialàtt dla Cianôva - Dialetto di Decima (frazione di San Giovanni in Persiceto)

La Cumediôla dal Dialětt dla Ciṡanôva

ed/di Ezio Scagliarini - Ascolta il sonoro

Canturlén I

Ind al bèl mèż dla nòt quand l é pió bûr,
da sucuànt dé a sintîva cmé un laměint
ch’l um żdêva dal prémm sòn, quěll ch’l é pió dûr.
A capirî ch’scagâza in cal muměint!
E tótti al nòt as ripetîva al fât,
e sěnper quêṡi um gnîva un aziděint.
Avîva bèla pòra ed dvintèr mât,
pŏ ai ŏ pinsè a na quèc instariarî
o al dièvel ch’al vléss gnîr par fèr un pât.
A sŏun parfén andè ind l’abazî,
dai frè dla ròca, pŏ m sŏun fât bandîr,
mó a n ŏ bṡa pêrs ste gran malincunî.
Al mî dutŏur al m à savó sŏul dîr
che a zěnna an và bṡa běin gnòc e friżŏun
e par medgénna un quèl par digerîr.
Mo l’ètra nòt ag fó l’apariziŏun
e adès a vói cuntèruv cum l’é andèda:
Avîva apĕnna détt al mî uraziŏun,
la pôrta běin ciavèda e cadnazèda,
i scûr dla fnèstra srè con la marlĕtta,
al can lupén lé fòra a fèr la bèda,
che ind la mî stanzia ag fó cmé na sajětta
e sóbbet dŏpp la vŏuṡ dla malatî.
Mé ai ŏ curâg’, mo m vêns na gran caghĕtta
“ajût - a gîva - ajût o mâma mî!”,
a m sŏun sfrunblè vêrs l óss, ṡvêlt cmé n livrén
ch’avîva sŏul la vójja ed scapèr vî
“Ag é un fantèṡma, al dièvel, n asasén!”
A gîva con la tèsta in gran burâsca
e dala pòra am véns un bèl ṡmalvén,
acsé a casché cumé un côrp môrt al câsca
 
Canturlén II

Al bichîr d âcua, quĕll dla cumudénna
al m arivé ind la fâza al inpruvîṡ,
mó s vědd ch’la cunté pôc la bagnadénna,
parchě a sinté dû s-ciâf ind i bajîṡ.
Mé a n arévv vló vrîr òc’ pr inción mutîv,
mo dŏpp a èter dû fôrt e dezîṡ
la pòra ed ciapèrn anc di pió catîv
l’um fé guardèr la mî apariziŏun
ch’mulêva ṡmataflón da òmen vîv.
“Dî só, g’métt mŏ d busêrum, bèn dabŏun?
- A g gé quand um g’mité la tarmarôla -
Picêrm a mé ind la mî abitaziŏun?
E pŏ ind la fâza, ch’a sŏun bèla viôla?
Fantèṡma o nŏ al n um piêṡ pròpi brîṡa,
métt żŏ cal man, finéssla cŏn ste gnôla.”
E pŏ andé drétt, livàndum só in camîṡa:
“ît fôrsi un mî parěint, un antenè?
Epûr a n ò fât dîr dal měss in cîṡa!
O ît l’âlma inconsolâbil d un danè?”
E in st mèntr a m al sŏun vésst ed banda al lèt:
l îr’un nunéin con di cavî arżintè
e al parîv’ón ch’l avéss biṡŏggn d afèt,
con ûc’ luṡént ch’i stêven par zighêr.
Mé a m sŏun cumòs a věddrel in cal stèt,
e alŏura a gé: “Parchĕ m ît gnó a picêr?
Dîm mŏ chi t î, che t um fè tanta pěnna
che mé s’a pòs a t vrévv pròpi ajutêr.”
E s’avéss psó l arévv ciamè anc a zěnna.
Mé pió a g guardêva e pió a pinsêva: “A l cgnŏss!”
Mo s’a l cgnusîva, mé al cgnusîv’apěnna
e ló al c’curé, dŏpp a dû cûlp ed tŏss.
 
Canturlén III

“A t ŏ dè żŏ i pulén par vî t at żdéss,
che t îr indurmintè pió dl urdinèri,
parchě stasîra a vói che t um capéss;
dal mèl a n t in vói brîṡa, anzi al cuntrèri:
seběin ch’a l sŏ che té t î un farabîr,
a sŏun vgnó qué da té par c’cŏrrer sêri.”
E pŏ cum s’l avéss lèt ind al pinsîr:
“Se té t an um cgnŏss pió l é cŏulpa tô
e quěsst l é al quèl che pió l um fà sufrîr.”
Mé ai ŏ pinsè: “Puvrětt, l é bèla ed cô
ch’al và in arâdig fôrsi par tiṡî”,
e a g ŏ détt fôrt: “Mo mé a n ŏ gnanc détt ô,
e té fantèṡma dîm che angarî
òja mâi fât a un vèc’, mé, sěinza vlěir
e infén dîm al tô nómm se té t sè al mî”.
“Cgnŏssrum par té l arévv da èsr un dvěir
parchĕ t î nè e pŏ t stè qué a Ciṡanôva,
mé a sŏun al tô dialĕtt, s‘t al vû savěir!”
A pinsé sóbbit: ”Quĕssta mŏ l’é nôva,
stu-qué l é mât cmé un ṡdâz pôver vciarlén,
a fénnż ed dèrg a mĕint” e a gé par prôva:
“Mo běin, mo dît dabŏun, al mî bŏun vcén?
s’t î al mî dialĕtt a t ŏ sĕnper vló běin
parchĕ t al sè ch’a sŏun un dezimén
e a Ciṡanôva tótt a sěin par běin,
na zirudlénna a n t l avěin mâi neghèda,
mé a l dégg par fèrt capîr cm’at rispetěin,
mo dî bĕin só, mé a g ŏ la pôrta srèda
e a un zêrt muměint t îr dal bandŏun dal lèt.
Cm’èt fât a gnîr da mé, dîm mŏ la strèda
ch’a t pòsa pardunèr anc s’l é un reèt”.
Canturlén IV

”Al mî destén l é sgnê - al cminzé a dîr -
e quěssta qué l’é l’ûltma mî ucaṡiŏun
parchĕ dal tótt mé a n vrêv ménga murîr,
e Quĕll che d tótt i mónnd l é al Padrŏun
alŏura al m à conzès al deṡidêri
ed fèrum vĕdder qué int n’abitaziŏun.
Cum'ai ŏ fât l é anc par mé un mistêri
mé a îra ind al tô zócc, ind al zarvèl,
a îra ind n angulén, cmé srè ind l armèri,
e vgnagànd fòra a vdîva al tô rudèl
e l é par quĕll ch’t um sintîv lamintèr,
che par mî cŏunt lé dĕintr ag manca quèl!”
“Běin mo csa dît, e adès cm’òja da fèr?
Êl un quèl grèv? Mo îria acsé da cén?”
“Ala tô etè l é méi che té t lâs stèr,
a t manca un quèc rudlén, mo i pió cinén,
se inción s n acôrż et pû canpèr méll ân
che quî eg g é armèṡ a t i ŏ lustrê a puntén,
stà mŏ trancuéll ch’al n é bṡa un gran malân”.
E mé: “A t ringrâzi, dîm un èter quèl,
pr in du’ît vgnó fòra, sěinza fèr di dân?”
“Mo dala bŏcca, par mé l é normèl,
e sóbbit dŏpp um fêva chèrn e òs
in môd che té t an sintéss bṡa dal mèl.”
A séntr acsé um sŏun anc pió cumòs
e ai ŏ pinsè ch’al géss la veritè,
acsé a g ŏ détt: ”Farŏ tótt quĕll ch’a pòs,
mo chèvum l’ûltma mî curioṡitê:
dala scagâza mé a sŏun scuêṡi môrt,
ît vgnó da mé sŏul par fatalitê?”
“T ag è ciapè, ch’avěin tirê la sôrt.”
Canturlén V

“Tótti al furtóun al tŏcchen sěnpr a mé!
S’t um tîr in bâl, perŏ, mé a sŏ balèr:
té dmàndum quèl, t at sintrè dîr ed sé!”
“Mé prémma d ónna a té a t vói bravèr
parchĕ ai tû fiû t an g ĕ bṡa insgnê l dialĕtt…”
Mé a salté só: ”Bṡa vlěirum cundanèr,
che té t al sè, cmé lĕingua t î un pô vcĕtt,
adès as ûṡa invêzi ed té l inglěiṡ…
…cal dòn, t al sè, bṡŏ’ tûri cŏl mujĕtt…
a insisté un pôc e dŏpp um sŏun arěiṡ.”
E ló: “A capéss, che ste generaziŏun
l’à da savěir l inglěiṡ e anc al ciněiṡ,
mo a n srévv bṡa mèl mantgnîr al tradiziŏun,
almànc un pôc par psĕirli tramandèr.
In mèż a tanta globaliżaziŏun
al dé d incû al lĕingv bsŏggn’inparèr
e ai ŏ piaṡĕir parchě ali én mî surèl,
mo i dialétt i n s pòlen bṡa c’curdèr!
Fra nó e lŏur an g é mâi stè duèl
(e ch’am riṡûlta, gnanc fra nó fradî)
e pió in savî, pió mé um chèv al capèl!
Perŏ l arcôrd di ûṡ dal tĕinp indrî
l à da fèr pèrt dla vòstra umanitê,
bṡŏggna evitêr che al tĕinp l i pôrta vî!”
Qué a l ŏ interŏtt par dîr la mî idê:
“Fra i dialétt ch’avěin nó qué d intŏuren
um sà che t sépp fra quî pió furtunê:
dimónndi it c’cŏrrn in cà e par cuntŏuren
con té dialĕtt dal rémm as piêṡ ed fèr
ch’a fĕin pió zirudèl che pan un fŏuren!”
“L é vĕrra - al gé – e a pòs sŏul ringrazièr”.
Canturlén VI

“Peppîno Urtlàn e anc Òscar Muntanèr
- al gé con emoziŏun al inpruvîṡ –
mé a stâg insĕmm a lŏur a ciacarèr
in mèż al sô ruglětt in paradîṡ,
mo ai vûster żûven ch’i an ste gran pasiŏun
a vói dîr quèl a lŏur fôrt e dezîṡ:
Cumé pizón ciamè dal furmintŏun
a n arduṡî dla żĕint lé par cranvèl
ch’i ascŏulten zirudèl a profuṡiŏun!
Al quèl l um fà cuntĕint cumé un fringuèl,
mo mé pió dal cranvèl a vrévv durêr
e ṡluntanèr al mâsm al funerèl!
Coi mîż d adès as pòl anc registrêr,
e scrétt la zirudèla běin pulîd,
incôsa insĕmm biṡŏggna pŏ archiviêr,
e par ch’l’an vâga pêrsa mé a v invîd
a tgnîrla in bibliotêca lé al sicûr,
che inción pòs’arvinêrla par diṡguîd,
par vî ch’la sèlta fòra ind un futûr
quand ind al mŏnnd ag srà sŏul un linguâg’,
par dimostrèr cum l îra al dialĕtt pûr.
E alŏura bṡò’ fèr bĕin tòtt i pasâg’
e scrîver in dialĕtt con coerĕinza,
che l itagliàn an fâga inción cuntâg.”
Mé a salté só, tuchè ind la mî cusiĕinza:
“Una quèc vôlta ind na zirudèla
dialĕtt e itagliàn in cunvivĕinza
a g i mitěin, acsé la vîn pió bèla,
e la fà rédder, séppet mŏ sinzêr”.
Mo ló: “S’a inbastardî la mî favèla,
a ridrî vuèter, mé l um fà zighêr!”
 
Canturlén VII

“E pŏ - ló al cuntinué - a vói anc dîr
che i vêrs i vôlen lóng tótt quant prezîṡ,
e in cla partîda qué am pèr d capîr
ch’a n sîdi brîṡa tótt dal stĕss avîṡ,
in môd che mé a zupîg con tótt dû i pî,
e quĕsst s’a parmitî par mé l é un sfrîṡ,
mo qué a stâg zétt, che al canp al n é bṡa l mî.”
“Um sà ch’et cměinz a avĕir un pô d pretĕiṡ,
t avîv apĕnna détt un pôc pió indrî
- a gé pŏ mé ch’a m îra scuêṡi ufĕiṡ –
che al lĕingv e té a sî cûl e camîṡa.
Èt détt acsé o t òja mèl intĕiṡ?”
“Mé sé, a l ŏ détt, a n al nêg pròpi brîṡa,
mo par andèr d acôrd, cmé fra i umàn,
se ognón al stà ind al sô, la pèṡ l’é d ghîṡa!”
E pŏ ló l andé d lóng: “A vói na man
par vîd ch’i scrîven tótt in cla manîra…”
Mo qué mé a salté só: “Và pian, và pian,
s’et vû anc quĕssta, mé a t dégg bôna sîra!
T an vrè méa tótt chi séggn sŏuvr al vuchèl,
che dŏpp a lèżr as rŏunp anc la dintîra?
Mo nŏ, quěsst qué l é un quèl da inteletuèl!”
“Al n é bṡa věrra, râza d n ignurànt!
L é ŏura d scrîver tótt in môd uguèl!
Stà aténti a quěll ch’a t dégg, ch’l é inpurtànt:
tulî só l rêgol che pŏ andrî vî léss,
l é fâzil pió t an pĕins, a stâg garànt!
Tè dîl a tótt, a vrévv che t al żuréss!
Parchě an g é n’ètra strèda o n’ètra cûra
par evitêr par mé l’apucaléss
e pŏ in pôc těinp la môrt scuêṡi sicûra.”
Canturlén VIII

“Par mé và bĕin, a żûr ch’a t dâg a měint,
perŏ par chi èter, mé a n dégg gnînt a inción!
Parchĕ se mé a tîr fòra l arguměint,
‘ mo bèdt a té!’ - dirà d sicûr quelcdón -
Ît gnó da nó par fèr al milurdén?
Mo té chi ît, par rŏunpr acsé i quajón?
Mé a fâg cm’um pèr, ch’a sŏun pió genuén!’
E pŏ, chi pòl mâi crědder a ste stòria
ch’la pèr na fôla fâta pr i putén?”
E ló: “Mé a n vĕdd brîṡa tanta bòria!
A vŏuṡ o scrétt té drôva al tô parôl,
par fèr in môd ed psĕir cantèr vitòria,
a g pĕins pŏ mé a méttrig al tarôl!
Mé a starŏ d là a vědder e a dèrt ajût,
a méttr al ŏurden tô tótt quěll ch’ag vôl;
e pŏ par dèret n èter contribût
a métt só la tô strèda un gran zarvèl
studiŏuṡ dal lěingv, al miŏur in asolût,
ón ch’al sà d léttra, un zêrt Dagnêl Vidèl,
ón che i dialétt al scòsa dala guâza;
té dâg a měint a ló, ch’al stròIga quèl!
E guâi a té s’et vléss tajèr la lâza,
che adèsa mé a sparéss, mo al sŏ in du’t stè,
e tótti al nòt i srénn ṡbarlón in fâza!”
Pŏ l um guardé con ûc’ pên ed buntè;
mé a l arévv vló strichêr ind un abrâz
mo in st’měinter ch’a t al dégg al s é scuajè
e pŏ um sinté ind n’urĕccia cmé un ṡvulâz
e a m artruvé canbiê, ch’a n sŏun pió quĕll;
andé ala pôrta a vrîr tótt i cadnâz,
e pŏ andé fòra a věddr al zîl e al strĕll.


Êzio Scajarén
 

 

Al piât ed turtlén

d Ezio Scagliarini

Quand a suné meżdé as psîva sénter
Bruntlèr na pgnâta al fûg sòuvr’al furnèl
La tèvla granda col sarvézzi bèl
L’îra  imbandîda con bî fiûr al zènter

Mé m sòn sidó al mî pòst e in cal mènter
I m an  sarvé d un piât talmènt spezièl
Ch’al parîv’ôr al brôd e anc al żojèl
Che insèm ai sû gemlén  g nudêva dènter

E intànt che mé ag guardêva pió d avṡén
Con l’âcua cèra in bòca par l udòur
Ai ò purtè a la bòc’ón d chi bilén

E sòt’ai dênt immèns l é stè l savòur
Un’emoziòn intènsa cmé l baṡén
Ec dà la mâma o al prémm dal prémm amòur.

Il piatto di tortellini 

di Ezio Scagliarini

A mezzodì potevi già sentire
Un brontolio di pentola ai fornelli
E fiori posti al centro allegri e belli
La tavola finivan d’imbandire

Seduto mi son visto poi servire                                                    
Un piatto pieno d’oro e di gioielli
Per il color del brodo e dei gemelli
Che galleggiavan dentro ad arricchire

E mentre lo guardavo da vicino
Con l’acquolina in bocca per l’odore
Mi son portato al labbro un gioiellino

Ed al palato immenso era il sapore
Quell’emozione intensa del bacino
Che dà la mamma o il primo grande amore.

 Al zío americàn

ed/di Ezio Scagliarini

I

Una matéṅna in Uṡa, Springfield Mas.,
Ind n ân dal prémm inézzi dal novzènt,
Al caminêva in strèda, svêlt al pâs,
Con méll e méll pinsîr ind la sô mènt:
Al sô sustanz cuṡ’îrni? Sòul un sâs,
E par de pió i c’curîven difarènt!
Mo l’òura l’îra vgnûda ed fèr la prôva
Se in Uṡa as psîva avèir na vétta nôva.

II

I témmp i îrn ed miṡêria a Ciṡanôva
E l emigrêr dvintè scuêṡi n’uṡanza;
Se lavurèr da nó sré stè na nôva,
“In Uṡa - i gîven - ag n é in abundanza”,
Là in dóvv l é ṡbarchè ló, sòta la piôva,
Sènza pió un sôld, mo in côr la gran speranza
Che ló an sré stè mai pió tra i pió puvrétt;
Se lòta l’é la vétta, mâi scunfétt!

III

Ind la sô léttra al zío l avîva scrétt:
“In cà da mé, par té, ag é sèmpr un lèt,
Travêrsa prèst al mèr che l é un delétt
S’t an vín mèa sóbbit qué, che mé at aspèt;
Al fâbric tótti ali an biṡògn d adétt
E un pèz ed pan al g é, vin qué dirèt!”
Pr al viâż di sôld in prèst d’ògni parènt,
(Tulàndṡ al pan d’in bòcca, pôvra żènt).

IV

Che maravèja granda al bastimènt,
Che céṅna la valîṡ con la sô lâza.
Al schèf quand s é ztachè dal baṡamènt,
Che lègherma righêva la sô fâza,
Mo da la bòca an véns gnanc un lamènt,
Anch se al sô côr picêva cmé na mâza.
Oh, cm’andèr vî da cà l’è côsa chèra
S’et pèns d an psèir pió arvèder la tô tèra!

V

Quand l îra chèlm al vènt, immèns e pèra
Al mèr, mai vésst, fó l’emoziòn pió granda,
Però cla nòt ch’a véns la gran bufêra,
“Mo un salvaròja mâi?” l’îra la dmanda;
In nèv che confuṡiòn, una galêra,
Intant ch’al vumitéva só la branda.
Infén la dòna con la lûṡ in man:
I îrn arivé ind al stèt di americàn.

VI

La fèsta la scupié e chi cristiàn,
Cuntênt, cumm i saltêven! Cmé só ali ònd!
Al sizigliàn brazêva l emigliàn,
Socuànt zighêven, l îra l finimònd!
Mo dòp, tótt i cuntròl e chi itagliàn
I vdénn Nû Iòrc,  luntàn, cmé ind n èter mònd;
Dutûr e documént e pasapôrt
e gnanc tranquéll un pôc par la sô sôrt.

VII

Al fó pó aîr, un dé ch’piuvîva fôrt,
Ch’arivé al zío a fèrig da garànt
E al psîva finalmènt lasèr al pôrt:
“Oh ala fên ti qué, al mî birbànt!”
Ali îren trèi parôl, mo che cunfôrt!
“A cà cumm stâni, dî mò, bèn tótt quànt?”
E un gran abrâz ch’al c’fêva tótti al pôr:
“In treno andèn a cà dóvv t at ristòr…”

VIII

“Edmàn al srà un bèl dé, giurnèda d ôr,
Che l é al prémm dé dla stmèna e l prémm dal mèiṡ,
Mo fôrsi t’è bisògn d un pôc d arsôr...”
“Ai ò lasè i amîg, la cà, al paèiṡ
Pr avèir un quèl preziòuṡ pió che un teṡôr:
Un lavurîr… e sóbbit… e anc s’l é pèiṡ…”
“Va bèn putén, s’t è vójja ed lavurèr
Té t vdrè che qué t al trôv un quèl da fèr!”

IX

E al caminêva adèsa par zarchèr,
Portafurtóuna sòul cal sasulén
Che un dé, prémma d partîr, l andé a ztachèr,
Pr arcôrd dla sô famèja, ind al camén.
Pr an stèr dnanz a un padròn a tartajèr,
Al zío l avîva scrétt ind un fuitén
“Looking for work” (a zèirc un lavurîr),
 Che sènza c’còrrer l îra da eṡibîr.

X

Acsé quand l arivé pó ind un cantîr,
Guardànd al psé distênguer al padròn,
Al s avṡiné cmé s’l avéss quèl da dîr,
Al mustré al fói e, fèirum cmé un fitòn,
L aspté l’arspòsta sènza interferîr.
“Tumòra”, al psé capîr ch’al géss l’umòn
Che dòp li saluté còn un scuplòt,
E ló l s invié vêrs cà col pâs dal tròt.

XI

“Bṡòggna suvgnîrsla fén stasîra ali òt
Par dîrla al zío, che par adès l é fòra,
E par an fèr figûra da ucaròt,
‘Cam tumòra, mo csa vôl dîr tumòra?’
Cantand, mé a m al ripêt fén ch’an sòn còt!”
E acsé d c’curdèrsla ag andé vî la pòra….
“’Tomorrow’, Nando, al sèt? Al vol dîr dman:
Adès t è avgnîr e vétta ind al tô man!”

XII

S’in vlî savèir de pió d l americàn,
Av dégg che dòp l andé a maravèja:
Un bòn amstîr, na cà coi tulipàn,
Con la sô dòna al mité só famèja.
Adèsa i fiû di fiû l inglèiṡ i al sàn
E dla miṡêria, pó, n g n é gnanc na crêja;
Quelcdón dal dòu l é fôrsi un pôc tròp grâs…,
E in cà, dèntr a un bèl vèṡ, a g é cal sâs.

In zêrti basŏur

ed Loris Fava

In zêrti basŏur ed mâż o d avréll,
guardàndum d atŏuren in gîr pr al curtéll,
dal vôlt a suzêd ch'a un séppa d avîṡ
ch'ag pòsa èsr in tèra un mèż paradîṡ:
un sŏul ĕilt e splĕndid mo brîṡa ṡgarbè,
al zîl bèl zelèst, vardéssum al prè;
luntàn là in muntâgna dŏu nóvvl ed bunbèṡ,
ché un'âria fraschénna l'un pôrta ind al nèṡ
al dŏulz di prufómm dal rôṡ, dal peòni,
di fiûr d ligabòsc e quî d santantòni;
un mêrel al canta ed cô d n albarén
e dŏu turturénn i un pâsen avṡén
e in rîva al laghĕtt i atèren pian pian,
al bĕvven un gŏzz e pò vî ch'al van;
fagând svîlt scanbiétt sî o sèt rundanénn
i arcâmen al zîl col sô serpenténn;
pió in ĕilt i siglón i van vî dezîṡ,
con vûl acrubâtic i s pâsen in sfrîṡ;
ṡvultê ind la banchénna al gât al se ztîra
e al stà un pôc al'ôra e un pôc in custîra.
Mé a guèrd es a un dégg che tótt ste spetâcuel
l é sŏul premavĕira anc s'al pèr un mirâcuel,
l'é sŏul na staṡŏn che prèst la finéss
cme al mŏnnd tótt i quî che al tĕnp al supléss:
pasè sucuànt dé la stĕssa natûra
la s manda in cunpĕns zinzèl e calûra,
e pŏ di bastèrd parfén tra i uṡî
ch'i un fan fòra i fîg: di branc ed sturnî;
d autón pó as tribŏlla col fói tótt i dé
e col pudadûr a n s à mai finé,
perŏ tótt i ân ch'arîva a n vĕdd l'ŏura,
ed mâż o d avréll, na bèla basŏura.


Dialàtt ed Pimâz - Dialetto di Piumazzo (MO)

Al gât di Tartaréin

ed/di Cesare Bonfigliuoli

Zirudèla, qué a Pimâz
Una dòna l’à pêrs al gât

Un gatto fino, io vi dico,
il suo nome è Lodovico.

I l ân zarchè tótt, grând e céin,
Ma incióun l à vésst al mnéin.

La famajja disperèda
La s é méssa par la strèda,

i éin parté con al furgåun
só e żå par la regiåun.

Bulaggna, Caṡalàcc’ e Zôla,
Pragâti, Crasplâ e Anzôla,

e i dmandèvan a tótt quânt
s’i avîvan vésst un gât grîṡ e biânc.

I ân girè tótt disperè
féin a San Żvân, Żindrîgual e la Palè,

e pó Crevalcôr, Bonpôrt e Surbèra
dóvv i fénn na gran gatèra.

Sgnåura avîv vésst, par chèṡ, un bèl gatéin
Biânc e grîṡ sainza nastréin?

I l ân vésst in piâza a Sulîra
Ala farmèda dla curîra.

Biânc e naigr al n é bra ló!
Cal gât qué an s câta pió!

I l ân vésst na sîra a Manzuléin
Ch’al znêva con un pundghéin.

Pôvar gât! Duv ît andè?
A sain tótt disperè

Sainza magnêr tanti giurnèd
Int al cûl t g arè al tlarèd.

E gîra gîra cåun ste furgåun
I éin arivé féin al Abetåun.

La fiôla, ch’l’é in viâż ed nòz
La n dôrum dé e nòt,

dal’Austrâglia la telêfona a Pimâz
par savair s’i ân truvè al gât.

Alåura la padråuna la tûl na deciṡiåun
par coinvôlżar la popolaziåun,

una bóssta péina ed quatréin
par chi pôrta a cà al gatéin.

Na sîra, cl’îra gnânc nòt
I vésstan un gât saltèr un fòs

L’îra ló, tótt melandè
Che a cà l îra turnè.

Ala véssta dal gatéin
I fénn fèsta i Tartaréin

I miténn in mòto la padèla
Tócc e dâi la zirudèla.


Dialàtt ed San Gabarièl - Dialetto di San Gabriele di Baricella

Stefano Rovinetti Brazzi l é un profesåur ed latén e grêc e l é anc l autåur d un artéccol inpurtànt såura l'evoluziån stòrica dal dialàtt bulgnaiṡ ("Monottongazione e morfologia del nome e dell’aggettivo nel dialetto bolognese: ristrutturazione o analogia?", in L’Italia dialettale, Anno LII, Vol. LII (Nuova serie XXIX), 1989). Par séntrel in st mänter ch'al lèż äl såu poeṡî clichè qué - Stefano Rovinetti Brazzi insegna latino e greco in un liceo ed è autore di un importante articolo sull'evoluzione storica del dialetto bolognese ("Monottongazione e morfologia del nome e dell’aggettivo nel dialetto bolognese: ristrutturazione o analogia?", in L’Italia dialettale, Anno LII, Vol. LII (Nuova serie XXIX), 1989). Per sentirlo mentre legge le sue poesie cliccate qui

(Nòta: a druvän qué l'urtugrafî dl autåur, ch'l'é pò qualla ed ste Sît adatè ala fonêtica dla sô żòna e una particolaritè: ló al saggna con na dåppia tótti äl vôlt ch'ai é una n velèr lónga. As prêv fèr anc pr al bulgnaiṡ zitadén, mo an s fà brîṡa pr i mutîv spieghè ala pâgina dla fonêtica ed ste Sît - Nota: usiamo qui l'ortografia dell'autore, cioè quella di questo Sito adattata alla fonetica della sua zona e una particolarità: lui segna con una doppia tutti i casi di n velare lunga. Si potrebbe fare lo stesso per il bolognese cittadino, ma non è fatto per i motivi spiegati alla pagina della fonetica di questo Sito).
 

Ala lûṡ dla sîre

Ala lûṡ dla sîre
iṅ cal bèl siläṅṅzi bûr
säṅṅze al cantèr di pasaréṅṅ
al Sgnŏur mé dégg l i aväṅṅze
e l mäṅṅde fòre
iṅd al siläṅṅzi bató dal väṅṅt,
al muntâgn e i sfundarióṅṅ sŏtt’âcue
e al zîl stra nûvl e strèl,
e ónne e dŏu e trai vôlt
al clŏmmb a dîri
a quî ch’i s êrn aṅghè
cus èni mâi fât
che ló l i vôl tótt
ch’i n têṡan mâi
parché cal väṅṅt dla sîre
cŏn tiṅpèste e piôve
al fá säṅṅpar pió bûr
e cum farèl po ló
a séṅṅtr e a dîr
al vŏuṡ ad tótt?
ch’i n s cardéssan mâi
al paradîṡ l é quásst
brîṡe un żardéṅṅ
mo un sunèr ad vŏuṡ
na siṅfunî ad tótti
säṅṅze täṅṅp un bèl pêrs
iṅd un zâirc’ säṅṅze féṅṅ
a fèr uṅ culŏur ad tótt i culûr
la vŏuṡ dal Sgnŏur i sû ûc’ e al sŏu mäṅṅ
e ali urácc’, uṅ biäṅṅc säṅṅze bûr
e c’cŏrrar e pèṡ dl etêran.

  Alla luce della sera

Alla luce della sera
in quel bel silenzio buio
senza il canto degli uccelli
il Signore, io dico, si stupisce
e manda fuori
nel silenzio battuto dal vento,
le montagne e le forre sott’acqua
e il cielo fra nuvole e stelle,
e una e due e tre volte
il colombo a dire a chi
era morto annegato
cosa hanno mai fatto
che lui li vuole tutti
che non tacciano mai
perché quel vento della sera
con grandine e pioggia
fa sempre più buio
e come farà poi lui
a sentire e a dire
le voci di tutti?
che non lo credano mai
il paradiso è questo
non un giardino
ma un suonare di voci
una sinfonia di tutte
senza tempo bellezza persa
in un cerchio senza fine
a fare un colore di tutti i colori
la voce del Signore i suoi occhi e le sue mani
e le orecchie, un bianco senza buio
e parlare e pace dell’eterno.

     
Uraziŏṅṅ

Bât al mäṅṅ Sgnŏur
rédd e c’cŏrr
ch’a siṅtäṅṅ la vŏuṡ
dal tô siläṅṅzi
e stramèż a i säṅṅ nó
ch’iṅd la tô bŏcche avêrte
a stäṅṅ da séṅṅtar
la vŏuṡ ad tótt;
e lasêi c’cŏrrar
ch’a piṅsèri i têṡan
e ai têṡ al Sgnŏur,
e a vláir e an vláir brîṡe
a saváir e an saváir pió
ai o vésst dla żäṅṅt zighêr
d an séṅṅtri pió.
Mo al Sgnŏur l é l sulfanèr
dal mŏnnd e iṅd al sŏu mäṅṅ
dl etêran al vŏuṡ nòstri
a n i pirdäṅṅ pió.

  Preghiera

Batti le mani Dio
ridi e parla
perché sentiamo la voce
del tuo silenzio
e in mezzo ci siamo noi
che nella tua bocca aperta
stiamo a sentire
la voce di tutti;
e lasciateli parlare,
se ci pensate tacciono
e tace Dio,
e a volere non volere
a saper e a non saper più
ho visto gente piangere
di non sentire più.
Ma Dio è il robivecchi
del mondo e nelle sue mani
d’eternità le nostre voci
non le perdiamo più.


Dialàtt ed San Żvân - Dialetto di San Giovanni in Persiceto

La parâbola dal Fiôl Strasinån tradótta da Bertén Sèra - La parabola del Figliuol Prodigo tradotta da Roberto Serra

Lócca 15, 11-32

Al fiôl strasinòun

Al gé ânc:
Un òman l avîva dû fiû. Cal pió żòuvan al gé a sô pèdar: “Popà, dâm mò la pèrt dal patrimòni ch’um tòcca”. E al pèdar al fé dòu pèrt ed tótta la sô rôba.
Pasè socuânt dé al fiôl pió żòuvan, dòpp ardótt tótt i sû quî, al parté pr un paèiṡ luntàn, e là al strasiné tótt i bajúcc, fagând na vétta da scavazzacòl.
Quând l avé spèiṡ incôsa, in cal paèiṡ a rivé una grân carestî, e ló al taché a avèir biṡòggn.
Alòura l andé a sarvézzi da ón ed cla regiòun, ch’al li mandé ind i canvèr a pasturêr i ninéin. L arévv vló rinpîres col curnàcc’ ch’i magnêvan i ninéin, mô inción ag in dèva.
Alòura al turné in ló es al gé: “Quânt ed chi brazéint in cà da mî pèdar i an dal pan in abundânza, e mé a sòun qué ch’a múrr ed fâm! A um ciaparò só, andarò da mî pèdar, es a g dirò: “Popà, ai ò pchè còuntr al zíll e còuntr a té; a n sòun pió daggn d èsar ciamè tô fiôl. Trâtum bèin cunpâgna ón di tû garżón”. Al parté, es l andé vêrs sô pèdar.
Quând l îra ânc luntàn, al pèdar al li vésst, e cumòs ag cûrs incòuntar, ag salté al còl es al li baṡé. Al fiôl al gé: “Popà, ai ò pchè còuntr al zíll e còuntr a té; a n sòun pió daggn d èsar ciamè tô fiôl”. Mo sô pèdar al gé ai sarvitûr: “Spicêv, purtè mò qué al ftièri pió bèl e ftîl, mitîg l anèl al dîda e i sândal ai pî. Purtè al vidèl pió grâs, mazèl, magnèin e fèin tuglièna, parché mî fiôl l îra môrt e l à turnè a vîvar, al s îra pêrs e a l avèin turnè a catèr”. E i tachénn a fèr tuglièna.
Al fiôl pió vèc’ l îra in canpâgna. In st mèintar ch’al turnèva, quând al fó dòuntr a cà, al sinté ch’i sunèvan es i balèvan; al ciamé un sarvitòur es al g dmandé sa capitéss. Al sarvitòur al g arspundé: “Ai é turnè tô fradèl, e tô pèdar l à fât mazèr al vidèl grâs, parché al l à turnè a avèir san”. Ló al s inaré tótt, e an vlîva pió andèr dèintar.
Sô pèdar, alòura, l andé fòra a preghèral. Mo ló l arspundé a sô pèdar: “Óu, mé a t sarvéss da tânt ân, a n ò mâi diṡubidé a un tô òurdan e té t an m è mâi dè un cavràtt par fèr tuglièna coi mî amîg. Mo adèsa che st fiôl che qué, ch’al s é magnê tótt i tû bajúcc con dal dunâzi, l é turnè, par ló t è mazè al vidèl grâs”.
Ag arspundé sô pèdar: “Céin, té t î sèinpar mîg, e tótt quall ch’é mî l é tô; mo biṡgnîva fèr barâca e èsar cuntéint, parché tô fradèl l îra môrt es l à turnè a vîvar, al s îra pêrs e a l avèin catè”.


Dialàtt d Altai - Dialetto di Altedo

ed/di Milla Martinelli

L insónni
 
Ai ò un insónni
ind al côr
e ind la mänt
ch’al dà un säns
al mî lavurèr,
ch’l um dà
la fôrze ed lutèr,
l um tîre só
quänd a n in pòs pió.
Al sòul pensîr
l um fà canpèr.
A vói na cà
in mèż ala canpâgne
con d intòuran
canvèr ed frût,
ed furmänt,
ed patèt,
ed zivòll,
ed tótt cal bän di Dío
ch’al nâs dala tère
col sòul
e dal sudòur.
Mé a m vadd là a lavurèr
mo änc al’ôre di filèr,
dóvv i râm i s pîgan
par la frûte da purtèr.
E al mî insónni
l é la mî speränza,
parché mé a vói
infcîr acsé,
giränd pr al cavdâgn
a séintar l udòur,
l umòur dla tère apanne arè.
A i vói purtèr
i mî anvudéin
par fèri séintar
al prufómm di fiûr,
di mîl, di pîr,
e fèri magnêr
una pêṡghe ala matîne prèst,
quänd la guâze
la n s n é gnänc andè
e l’à lasè
una gòzze só la frûte.
In cal mumänt
l’à un savòur
che pò a n l arà mâi pió.
Al’ôre ed chi âlbar
a i farò vàddar
come i vínnan e i vän
al staṡòn.
E mé a sò
che tótti ste sensaziòn
i avänzan ind al côr
e ind l’âlme
par la vétte.
Quänd i arän di pensîr,
dali aversitè,
i s arcurdarän chi mumént,
e la pèṡ e la serenitè
la gnarà a gâle dai aircôrd
dändi na câlme e una fôrze
ch’l’é de pió dal patrimòni
ch’a i vói lasèr.


Dialàtt ed Puratta - Dialetto di Porretta

L'Azzurra D'Agostino l'é una poetassa żåuvna ed Puratta. La s à mandè sta bèla poeṡî scrétta ai 25 ed lói dal 2006, che nó a publicän con la sô grafî - Azzurra D'Agostino è una giovane poetessa di Porretta, che ci ha inviato questa bella poesia del 25 luglio 2006. La pubblichiamo con la grafia originale.

e grill

L é tri dé ch’ai é
un grill serà in cà
apena ataca a fè bur
lù e taca a ciamèr
e ciama chi èter grill
e ciama al stell
i chemp
i gat
i bosc
e mé am pèr ch’ad fora
ai sia tott un mond
parfèt
cómm un mistér

il grillo

Sono tre giorni che c’è
un grillo chiuso in casa
appena comincia a fare buio
lui comincia a chiamare
e chiama gli altri grilli
e chiama le stelle
i campi
i gatti
i boschi
e a me sembra che di fuori
ci sia tutto un mondo
perfetto
come un mistero


Dialàtt ed Bażàn - Dialetto di Bazzano

Luca Grasselli, un ragâz ed Bażàn inamurè dal sô pajaiṡ e ch’l à anc fât l asesåur ala Cultûra dla sô cmóṅna, l à publichè un lîbr ed poeṡî. La pió pèrt äli én in itagliàn, mo ai é anc quassta qué, in bażanaiṡ, che nó a publicän cum al l’à scrétta ló - Luca Grasselli, un ragazzo di Bazzano innamorato del suo paese, per la cui amministrazione comunale è anche stato assessore alla Cultura, ha pubblicato un libro di poesie. La maggior parte è in italiano, ma una è in bazzanese. La pubblichiamo con la grafia originale.

Abiura di Andrea Cappellano

Alaura inamureres l’è un sburdaz,
un squéz d’orgasum d’anma, l’è un aptè
ch’al sel in bàca quand t vàd quel ed baun,
quand t’gh’è una quelch to fam.
Alaura al rest ‘li ein tóti rob da strolegh,
‘d qui ch’i vanden al strél fati a ritrat
ai mat, ai bazurloun ch’ai stan adrì.
E qui ùc’ lusnà par streda da du ùc’,
al feres te dal mànd, po gninta e bur?
O sir sfighedi, sabet ‘d not stunedi,
ghesgh ‘d dmandigh sfilazà int’al perdres ‘d taimp;
zirer d’arloi, fadiga ‘d ùc’ ch’is seran
e nuetar s’ciavo e salutain e incàra
n’etra volta a s’arporta adrì al vulant,
amigh ‘d barzlàta, amigh ‘d canzaun, amighi
d’antighi faid e vic’ culur d’amaur:
cunfus ‘liv dan indrì sauvra a la taila
‘d paigla ch’la not l’am dstand e al stàmg am masda
ali óltmi brisel ‘d vàia.

Vangel sauvra vangel, salvàza sauvra
salvàza, spcunzedi e rumghedi daintar,
bal mat ed cherta spaulta, nóvla ‘d sbòba
d’inzains ‘d Chanel, cicles ‘d zócar bianch:
po l’ingósa la mor sauvra al cuséin,
busì d’na fein, busì d’un nov prinzépi.
L’è ch’al dviva savair ch’Grazi l’an s cata
brisa al marcà, ch’l’è taila da sgnur, roba
trop feina p’r invantersla, par zugheri
coun un garbói ed fil in mez ai did
– e al tacaun cusè al pan l’ha tirà un sbregh
c’a risgh ai andeva fora anca al zarvel;
che an i ein slisarol d’anzel, mo scurtoun
‘d sas e grot, un sintir scudgà intl’erbaza
da zercher e suder’s tót da par sè;
e ch’si quecdoun l’ha catà mai ind’un bianch
d’úc’ un bianch d’ostia, un lusor ‘d caliz d’or
ind’l’or segret ‘d ‘na dona, l’è parchè
an i è gninta ch’l’an sì sacramaint ‘d sé.

Allora innamorarsi è uno sbordaccio,
uno schizzo d’orgasmo d’anima, è un appetito
che sale in bocca quando vedi qualcosa di buono,
quando hai una tua qualche fame.
Allora il resto sono tutte cose da astrologi,
di quelli che vendono le stelle fatte a ritratto
ai matti, ai tonti che ci stanno dietro.
E quegli occhi fulminati per strada da due occhi,
il farsi te del mondo, poi nulla e buio?
O sere sfigate, sabato di notti (note) stonate,
cucitura di domeniche sfilacciata nel perdersi del tempo;
girare d’orologi, fatica d’occhi che si chiudono
e noi ciao e salutiamo e ancora
un’altra volta ci riporta dietro il volante,
amici di barzelletta, amici di canzoni, amiche
d’antiche fedi e vecchi colori d’amore;
confuse vi restituiscono, sulla tela
di pece che la notte mi stende e lo stomaco mi rimescola,
le ultime briciole di veglia.

Vangelo su vangelo, salvezza su
salvezza, sbocconcellate e ruminate dentro,
ballo matto di carta fradicia, nuvola di sbobba
d’incenso di Chanel, chewing-gum di zucchero bianco:
poi l’angustia muore sul cuscino,
bugia di una fine, bugia d’un nuovo inizio.
È che dovevo saperlo che la Grazia non si trova
al mercato, che è tessuto da signori, roba
troppo fina per inventarsela, per giocarci
con un gomitolo di filo tra le dita
– e la pezza cucita al panno ha tirato uno strappo
che a momenti ne usciva anche il cervello;
che non ci sono scivoli d’angeli, ma piste
di sassi e scarpate, un sentiero scorticato nell’erbaccia
da cercare e sudarsi per proprio conto;
e che se qualcuno mai ha trovato in un bianco
d’occhi un bianco d’ostia, una luce di calici d’oro
nell’oro segreto di una donna, è perché
non v’è nulla che non sia sacramento di se stesso.

Luca Grasselli, Una nuda fedeltà, Bologna : AZeta Faspress 2006, ISBN 8889982063, prezzo 9 €


Ala Prémma pâgina
Và só