Dmandèl mò al Sît Bulgnaiṡ!
Chiedetelo al Sito Bolognese!


Da quand al Sît Bulgnaiṡ l é int la Raid (setàmmber dal 1999), avän arzvó un stracantån ed mesâg'. Däl vôlt in sti mesâg' ai êra däl dmand interesanti, e avän pinsè d insfilzèr qué äl nòstri arspòst. A in publicän socuanti, qualli ch'äl s én piaṡó de pió - Da quando il Sito Bolognese è in rete (settembre 1999), abbiamo ricevuto tantissimi messaggi. A volte questi messaggi contenevano domande interessanti, e così abbiamo pensato di mettere qui le nostre risposte a quelle che ci sono parse migliori.


Ottobre 2023 - Nel dizionario, mulén gażén è tradotto come "tramestio incessante, attività frenetica", ma io uso quest'espressione anche in un altro contesto: quando bevo con gli amici, finisce il vino prima delle arachidi, allora si ordina altro vino, poi altre arachidi, poi altro vino ecc. È un uso corretto? Inoltre: ho sentito dire che l'origine di questo modo di dire è nel gioco della schiera, quando le pedine sono messe in maniera che si fa schiera ogni volta che ci si muove. Cosa ne pensate?

Luigi Lepri: L'uso è correttissimo, e l'origine è proprio nella schiera e nella dama: anche in quei casi si dice mulén gażén.

Aprile 2016 -
Cercando sul dizionario Bulgnaiṡ-Italiàn la traduzione corretta di uno per uno, ho notato che nelle locuzioni è corretto scrivere ón pr ån; la domanda che Vi pongo è: al femminile è da usare ónna pr ónna o ónna pr åṅna?

Luigi Lepri: Una a testa fra maschi = ónna pr ån - Una a testa tra femmine = ónna pr ån (è invariato) - Ónna pr åṅna risulta erroneo - Esiste anche "ónna pr ónna", ma nel senso di ónna ala vôlta, ad es. "andavano in fila una per una".

Aprile 2013 -
Leggo in un recente libro sulla musica a Bologna che la filuzzi "trae il suo nome dall'arte del filare, andare da un luogo all'altro, muoversi instancabilmente". È proprio così?

Luigi Lepri: Le versioni sull'origine del nome sono due, accreditate in letteratura e anche da ballerini che erano anziani quando io ero adolescente.
1) I primi ballerini specialisti in questi nuovi passi e figurazioni molto ammirati, in effetti, andavano da un luogo all'altro (cioè i baladûr) per "filare". Il significato di questo verbo però non è "muoversi instancabilmente", ma "corteggiare" (per la precisione filèr drî a) ragazze e ballerine, ingraziandosele grazie alla perizia nel nuovo ballo.
2) Un'altra versione dice che a inventare quel ballo potrebbe essere stato un certo Filuzzi, ma nessuno ha mai offerto ulteriori indicazioni su questo presunto personaggio.

Aprile 2013 - L'espressione mé a sån da ôv e da lât col senso di "mi va bene tutto" si riferisce al sesso delle aringhe. Ma cosa sono le aräng da ôv e da lât?

Luigi Lepri: L'aringa da uova è la femmina e quella da latte è il maschio; il "latte" non è altro che il grumo mucillaginoso e solidificato di sperma, commestibile, ma meno buono della carne; oggi lo si scarta e in passato (con la fame che c'era) si mangiava. L'espressione mé a sån da ôv e da lât nasce quando l'aringa era cibo frequente e c'era chi preferiva il maschio (da lât) perché i filetti della sua carne sono più polposi rispetto a quelli della femmina che, spesso esaurita dalla fatica di produrre centinaia di uova e pesciolini, ha i filetti più magri e stopposi. In compenso c'erano quelli che preferivano la femmina (da ôv), perché ha innumerevoli uova, piccolissime palline che possono in qualche modo assomigliare al caviale.

Marzo 2013 - Da dove viene "èser fòra dal sparadèl?"

Luigi Lepri: È un'espressione figurata che usa l'immagine dello sparadèl, cioè l'ultima estremità della scarpa, la striscia di cuoio fra tomaia e suola: dicendo che qualcuno è fuori dal confine della scarpa s'intende "essere fuori misura, fare un ragionamento sbagliato, agire fuori dalle leggi" e simili.

Gennaio 2013 - Da dove viene "a n sån mégga tante biånnd mé"?

Luigi Lepri: Era comune credenza che i soggetti con capelli biondi e carnagione chiara fossero gentili, educati, remissivi, di modi garbati e dotati di una certa raffinatezza. Al contrario (sempre nell'immaginario popolare) quelli di carnagione scura e capelli neri, sarebbero persone decise che non si lasciano intimidire da nessuno, capaci di reagire ad ogni sopruso o ingiustizia. Da qui il modo di dire "A n sån mégga tant biånnd, mé" che sta a significare "attenti, che io sono capace di reagire con decisione!"

Settembre 2012 - Da dove viene "malippo"?

Amos Lelli: A pagina 165 del Vocabolario Bolognese di Gaspare Ungarelli: Malepp, m. (mod. e regg.  mapèl, lat. mapalia, di coloro che vivono sregolatamente. Fest. Sen.), Trambusto, Disordine.

A pagina 769  del Vocabolario Latino Castiglioni-Mariotti: mapale, is, n., di solito al pl. mapalia, ium,  1 capanna, tenda di nomadi, Sall. E a.;  2 fig. confusione, Sen. Apoc  9,1 [voce semitica].

Federico Galloni: Anche il Menarini in"Bologna dialettale" riporta questa versione, anche se lui propende per un'interpretazione inversa, ovvero che mapèl che deriva da malépp.
In questo caso malépp potrebbe essere a sua volta una filiazione del milanese malabiando (male avendo) o un non attestato bolognese antico *malipando che significano entrambi "infelice, disgraziato".

Aprile 2012 - Da dove deriva "andèr al gabariòt"?

Luigi Lepri: Andèr al gabariòt - Il curioso modo di dire è nato all’epoca delle occupazioni austriache. I prigionieri catturati dagli invasori venivano segregati in una minuscola cella singola di circa un metro quadro, senza luce né aria, che il gergo militare definiva Gabriotto. Poiché chi vi era rinchiuso difficilmente ne usciva vivo, in città nacque la locuzione Andèr al gabariòt (andare al - essere rinchiusi nel - gabriotto, cioè morire) usata anche oggi.

Gennaio 2012 - Ho assistito a una commedia in dialetto e mi sono chiesta da cosa ha origine il detto "fer dla tera da pgnat".

Luigi Lepri: Un tempo si riteneva che la terra prelevata dai cimiteri fosse la più adatta per fare pentole, teglie e tegami di terracotta. Quindi il modo "andèr a fèr tèra da pgnât" è uno dei tanti sinonimi di "morire".

Novembre 2010 - Avrei qualche domanda da farvi in merito a testi di canzoni dialettali. 1. Nella penultima strofa di "La mâchina żâla" si parla di "un pånt ch'l êra ed lèna". Cos'è? Chi ha scritto la canzone? 2. Nella terza strofa della canzone "Marî la guêrza" si menziona la parola "costumé". Cos'è? Chi l'ha scritta?

Gianni Cavriani: 1) "La mâchîna żâla", di Anonimo, fatta conoscere da Quinto Ferrari, è la risposta bolognese alla più famosa "La Balilla" Milanese, canzone popolare portata al successo dai Gufi e da Enzo Jannacci alla fine degli anni ‘60. La storia narrata è comune, tuttavia, in tutto il Nord Italia in versioni differenti. Al “pånt ch’l êra ed lèna” si riferisce alla tappezzeria interna che ricopriva gli organi di trasmissione lungo l’asse centrale della vettura, oggi diremmo la moquette.
2) Anche "Marî la guêrza" è di Anonimo. Al “costumé” era un liquore dolce (per signore) simile all’anisette. Strano che non abbia chiesto il significato di “vaniżén”(nella stessa canzone) perché quasi nessuno lo conosce, già che ci siamo: il vaniżén era un’antica misura agraria, oggi riferita solo agli appezzamenti che il comune dà agli anziani per coltivare orti, ed è poco più di 20 metri di lunghezza per 6 di larghezza circa. Nella canzone i due protagonisti ricoprono di bicchieri vuoti un’area per l’appunto di un vaniżén. Una bella bevuta!!!

Novembre 2009 - Ho letto su un calendario "alla bolognese" un proverbio dialettale per San Simone: "Una masca la vael un pizoun". Cosa significa?

Luigi Lepri: Si tratta di un proverbio la cui morte e sepoltura collocherei molto all'incirca negli anni Venti: Par San Simån, una måssca la vèl cómm un pizån, che significa(va): Per San Simone (28 ottobre), cioè all'arrivo dell'autunno, la campagna non offre più nessun frutto. Quindi, figuratamente, il proverbio vuole affermare che in quella stagione l'inutile e fastidiosa mosca ha lo stesso valore del prezioso piccione. Cioè: il nulla che offre la campagna, si chiami mosca o piccione, è sempre nulla. In certe zone pizån ("piccione") era addirittura sostituito da capån ("cappone") che, come noto, insieme all'oca entra nell'altro proverbio più conosciuto.

Settembre 2009 - Vorrei notizia di un certo Cassarini personaggio che, nei primi anni del '900, doveva avere notorietà nell'ambiente dell'alta società bolognese e abitava sicuramente fuori Porta S.Vitale nell'omonimo Castello tuttora menzionato sopratutto dai vecchi.

Luigi Lepri: Si tratta certo del Cavalier Clodoveo Cassarini, eccentrico benestante bolognese dei primi del Novecento che amava molto mettersi in mostra: un vero campione dell'ostentazione. Era notissimo a Bologna perché faceva uno sfoggio esagerato di agiatezza (cavalli, carrozze, villa con grande giardino e laghetto, stampa di cartoline che lo raffiguravano, eccetera). La villa era effettivamente fuori San Vitale nella località che era definita "S. Antonio di Savena" e assomigliava a un piccolo castello medievale in pietra con tanto di merli. Lui era noto non soltanto nell'alta società bolognese, ma anche fra il popolo che definiva la sua abitazione "Al castèl ed Casarén". La sua tomba, anch'essa eccentrica, è in Certosa a circa a 100 metri a sinistra entrando dall'ingresso dei "piangoloni".

Marzo 2009 - Vorrei sapere il significato delle parole "saiano" e "samadrizzo". Ho sentito spesso questi termini soprattutto allo stadio e da mio padre e i suoi amici quando giocavano a carte oppure a bocce.

Luigi Lepri: "Saiano" è l'italianizzazione di sajàn (rozzo maldestro). Anche "samadrizzo" è un'italianizzazione, che io però non ho mai sentito in italo-bolognese e considererei un occasionalismo poi radicatosi in una ristretta cerchia. Proviene da s'a m adrézz, che significa "se mi drizzo" e, usato come sostantivo (t î un pôver s'a-m-adrézz), mi sembra anch'esso un occasionalismo, proveniente da un aneddoto-barzelletta che stavolta conosco: una bella sposa fa l'occhiolino a un tipo che sta vangando ricurvo o sta chinato. Poi lo invita in camera dicendo Véṅnet só da mé? Lui risponde: Sé, s'a m adrézz!, riferendosi evidentemente non soltanto al raddrizzamento della schiena.

Marzo 2008 - Da bambino mio nonno spesso mi diceva a t al dâg mé al tabâc dal mòrro! Mi sapete spiegare meglio quest'imprecazione/minaccia?

Luigi Lepri: Il tabâc dal mòrro era la marca di un tabacco da pipa molto diffuso ("tabacco del moro") che sulla confezione aveva la figura di un negretto. Essendo un prodotto molto acquistato dai fumatori e in gran voga, la frase diventa minacciosa perché pronunciata con intenzionale ironia. Sarebbe l'equivalente dell'odierna "te la dò io, l'America!". Stessa cosa per la simile l à ciapè (o i i an dè) al tabâc dal mòrro "ha subito (o gli hanno dato) una pesante punizione o una sonora sconfitta".

Marzo 2008 - Da dove viene l'espressione ala strapî?

Luigi Lepri: Viene da extra pedes e significa alla peggio, a catafascio, in rovina

Febbraio 2008 - Devo spiegare al lettore italiano il termine usato da un famoso chef che fece apprendistato a Borgo Capanne, cioè "striccapugn" o "streccapogn". Io so cos'è (tarassaco, dente di leone, piscialetto), ma questo chef dice che si chiama così perché i fiori di sera si chiudono. Secondo me invece è perché è così amaro che ti viene da stringere i pugni. Chi ha ragione? E qual è la giusta grafia del termine in bulgnaiṡ?

Luigi Lepri: In bolognese si dice streccapóggn proprio perché le foglie (non i fiori) di una varietà (non di tutte) del tarassaco hanno la particolarità di richiudersi "a pugno" come si fa con le dita di una mano quando dal palmo disteso si passa a formare un pugno quasi chiuso. Lo spiegavano anche in campagna quando ero cinno ed è una spiegazione sentita più volte dagli anziani.

Gennaio 2008 - C'è un detto di cui purtroppo ricordo solo la seconda parte e non la prima che è: et dop all'os dietro all'uscio / dritta la manga dritta la manica / e arvers al fust e rovescio il fusto che serviva a dare alle sarte le regole per montare una manica. Voi sapete per caso qual è la prima parte di questo proverbio?

Luigi Lepri: Non è un proverbio, ma una brevissima e ingenua filastrocchetta per dare quella regoletta relativa alla manica. Nel mio orecchio (mia mamma fece anche la sarta) all'inizio c'è semplicemente la parola Zirudèla. Cioè: Zirudèla ed dåpp al óss / drétta la mândga e arvêrs al fósst che insegna ad applicare il fusto attaccando alla manica (ovviamente) la parte posteriore più grezza (il rovescio), in modo che poi il braccio, quando sarà infilato nella manica, andrà a contatto con la parte "dritta".

Settembre 2007 - Vorrei sapere l'etimologia del termine "gabariot".

Luigi Lepri: "Gabriotto" era una specie di bugigattolo strettissimo o di baracchetta senz'aria né luce, bollente d'estate e gelido d'inverno, nel quale gli austriaci invasori dell'800 imprigionavano gli oppositori che, a causa delle penose condizioni della reclusione, spesso morivano. Fu così che ai tanti modi dialettali per dire "morire" si aggiunse anche "andèr al gabariòt".

Giugno 2007 - Si sente dire a volte che Fagiolino si dovrebbe scrivere Faggiolino perché è o era fatto in legno di faggio. È vero?

Daniele Vitali: Effettivamente in certi vecchi copioni si trova "Faggiolino", ma questo sembra più un vezzo (poi diffusosi un pochino) che una spiegazione etimologica. Infatti, il nome dialettale di Fagiolino è Faulén: la parentela con faôl "fagiolo" anziché con ż "faggio" è piuttosto evidente! Ad ogni buon conto, abbiamo chiesto il parere di un burattinaio, che riportiamo qui sotto.

Riccardo Pazzaglia: È il burattinaio Cavallazzi, che agiva in Corte Galluzzi a metà del 18° secolo, a portare alla ribalta questo personaggio. Fagiolino infatti è il monello bolognese del popolino settecentesco. La cuffia bianca non è una berretta da notte ma un simbolo di riconoscimento dei birichini. Angelo Cuccoli, dopo l'attività cittadina del padre Filippo, ne approfondirà e ne caratterizzerà il personaggio. Grazie alla sua popolarità, Fagiolino viene elevato a "Maschera". Per la costruzione dei burattini si può usare qualsiasi tipo di legno. Quello più utilizzato non è il faggio ma il cirmolo. Si tratta di una tipologia di pino, cembro appunto, malleabile e resistente. Anche io sono dell'idea che per Fagiolino basti una G sola: il fagiolo era molto presente nella dieta dei poveri, anche cittadini. Maschere e burattini bolognesi richiamavano il mondo alimentare, ricordiamo Persuttino Gambuzzi, Frittellino, ecc. Forse qualche burattinaio del passato aveva elaborato teorie personali inerenti al faggio che potrebbe comunque richiamare il legno del suo bastone, ma penso si possa trattare di semplici errori ortografici o di traduzione.

Maggio 2007 - Sono uno studente toscano adottato da Mamma Bologna, per l'università. Ho iniziato una lunga discussione con il mio miglior amico che studia italianistica a Firenze. Io sostenevo che i dialetti in Italia posseggono una propria grammatica, anche con declinazioni verbali distinte dall'italiano. Lui invece sostiene che non è possibile perché i dialetti derivano dal ceppo volgare. La grammatica non può essere completamente diversa, dice lui. È evidente che ogni dialetto possiede una sua sintassi e fonetica, ma per lui non può essere che ci sia una differente declinazione verbale. Io sostengo che non è così. Spero possiate sciogliere questo dubbio.

Daniele Vitali: Tutti i dialetti neolatini vengono dal latino volgare, e quindi anche le lingue ufficiali, dal momento che in genere le lingue ufficiali e letterarie sono versioni "sprovincializzate" o "più fortunate" di un dialetto ben preciso. Lo spagnolo e il francese ad es. vengono dalle varianti della zona in cui si trova la capitale (rispettivamente Castiglia e Île-de-France) e l'italiano viene dal fiorentino, che nel Trecento non era capitale politica ma culturale ed economica.

Anche se poi l'italiano si è distaccato dal fiorentino e dal toscano e oggi è decisamente un'altra cosa, i segni di questa derivazione sono ben chiari da diversi indizi. Ad es., in tutti i dialetti il lat. -arium ha dato la forma -aro (cfr. romanesco tassinaro, bolognese furnèr, munèr, calzulèr), mentre in fiorentino ha dato -aio, ed ecco che in italiano si dice "fornaio, mugnaio, calzolaio" ecc. Ancora: in tutti i dialetti la II pers. plur. ha forme del tipo -emo (andémo in veneto, evolutosi in bolognese in andän), mentre il fiorentino ha la forma -iamo, per cui in italiano si dice "andiamo".

Questi due esempi mostrano come esiti provinciali, provincialissimi, localizzati del fiorentino abbiano poi fatto fortuna attraverso la filiera letteraria. Per cui non c'è nessuna differenza nell'origine di toscano (e italiano), bolognese o napoletano: tutti vengono dal latino parlato delle rispettive zone, e hanno poi avuto una storia evolutiva diversa, per quanto con vari tratti comuni. La maggiore o minore fortuna dell'uno o dell'altro poi è dovuta a fattori extralinguistici.

Per quanto riguarda la coniugazione verbale, il bolognese ha un sistema di tempi e modi analogo a quello italiano, ma con forme spesso differenti e un uso non sempre coincidente, come si vede dal libro Dscårret in bulgnai? www.bulgnais.com/manuale.html. Inoltre, e questa è una differenza fondamentale, il bolognese ha un sistema di clitici obbligatori nella coniugazione che manca all'italiano (c'è qualcosa del genere in francese), uno dei cui effetti è dare origine a una vera e propria coniugazione interrogativa, anch'essa mancante in italiano.

Comunque non c'è solo la coniugazione verbale a rendere diversa la grammatica bolognese da quella italiana: il plurale maschile è metafonetico, la negazione è ridondante, la sintassi ha un sacco di particolarità che rendono impossibile tradurre dall'italiano al bolognese parola per parola, almeno se si vuole parlare e scrivere un bolognese genuino, e non "light".

Il pregiudizio della mancanza di una grammatica nelle lingue non ufficiali e nei dialetti è stato molto diffuso un tempo ma oggi è decisamente superato e comincia a non essere più troppo creduto neanche a livello popolare!

Maggio 2007 - Vorrei sapere l'esatto significato della parola "saraffo" e da dove viene.

Luigi Lepri: Saraffo è la versione "italo-bolognese" di sarâf, che significa "ipocrita, finto tonto", e a sua volta viene dal gergo della malavita, dove il nostro termine indicava il complice dell'imbonitore-truffatore che in pubblico interveniva magnificandone la merce e convincendo così i potenziali acquirenti all'acquisto.

Maggio 2007 - Vorrei sapere come si chiama in bolognese la "spina" collegata al tino che serve per spillare il vino (fa da rubinetto di apertura e chiusura).

Luigi Lepri: Quella del tino che "fa da rubinetto" è esattamente "la canèla", mentre quella con la quale si fora(va) la botte che contiene la birra per ottenerne uno zampillo si chiama normalmente "la spéṅna".

Gennaio 2007 - Perché nel cartone animato con cui inizia il mitico DVD "Pizunèra" i piccioni dicono dûe, trîe, sîe anziché dû, trî, sî?

Luigi Lepri: I numeri sono quelli della morra, in cui si dice dûe, trîe, quâtro/quâter, zéncue/zénc, sîe, sète, òto, nôv, mòra (= 10). Un po' come in bolognese normale e un po' no insomma.

Dicembre 2006 - Cosa significa "L'é dûra l'aränga muṡizéssta"?

Luigi Lepri: Il detto esatto è "L'é dûra l'aränga" e nasce al tempo in cui l'aringa conservata sotto sale era il cibo più diffuso perché, al contrario di oggi, era il meno costoso. Il significato sarebbe "è duro - cioè faticoso - guadagnarsi il cibo quotidiano, è duro tirare avanti". Il detto classico finisce qui. L'appendice "muṡizéssta" nacque successivamente nell'ambiente dei musicisti da balera che faticavano a trovare ingaggi temporanei e malpagati. Con questa appendice, poi, Dino Sarti ne fece il titolo di una sua canzone. Ma il detto classico (senza muṡizéssta) è ben più antico e più diffuso nel dialetto bolognese.

Ottobre 2006 - Il ripieno dei tortellini ha il prosciutto crudo o cotto?

Luigi Lepri: Il lombo di maiale deve essere rosolato insieme al midollo di bue e una noce di burro. Prosciutto e mortadella, invece, vanno crudi e tritati poi insieme al lombo scottato. Si può dire, dunque, che il ripieno va cotto per circa un quarto dei suoi componenti e il resto va crudo. Bån aptît!!!

Maggio 2006 - Vorrei chiedere se qualcuno conosce l'espressione dialettale VANGE NEGA, usata spesso da mia nonna e mai più ritrovata in dizionari di dialetto bolognese.

Luigi Lepri: Era un'esclamazione molto usata ai tempi della mia adolescenza, in prevalenza dai giovani, ma ne prevaleva una simile: VAMMBA NÊGI! (minoritaria rispetto a VANGE NÊGA pure esistente). Tutta la mia generazione la conosce certamente. Non è da considerare parte del dialetto, ma si tratta di un'espressione gergale del linguaggio giovanile maschile dell'epoca ed è abbastanza strano che la usasse una persona anziana. Forse l'aveva sentita e copiata da giovani. Si usava come esclamazione di meraviglia e stupore di fronte a cosa fuori dal comune.

Marzo 2006 - Perché si dice: Và bän dala Sanpîra?

Luigi Lepri: "Sanpîra" era il nome d'arte di una famosissima "stròlga", cioè cartomante-indovina-fattucchiera popolare (inizi '900), alla quale si rivolgevano molti bolognesi del popolino per conoscere il futuro e soprattutto per farsi togliere il malocchio. Divenne tanto conosciuta a Bologna da dar luogo a un modo di dire vivo ancora oggi: "mo và bän dala Sanpîra!" che si indirizza a chi è vittima di reiterati colpi di sfortuna. Non so quale fosse il nome anagrafico, che non risulta in nessun testo. Possiamo dire che "Sanpîra" divenne poi anche sinonimo generico di "cartomante-indovina-fattucchiera", chiunque fosse ad esercitare questo mestiere.

Daniele Vitali: Va aggiunto che, nel "Dizionario romagnolo" di Gianni Quondamatteo, relativo alla zona di Rimini, troviamo la voce riccionese "GIAMPÌRA - (Ricc.), nome di una donna -vissuta o no?- rimasta celebre non per divina bellezza, o per elevatezza di doti morali, o per sublime intelligenza, o per atto eroico. No, soltanto per l'elasticità dei tessuti addominali, se è vero -come è vero- che si dice l'è cume la pènza dla Giampìra, che la s'lènga e la s'artira. Dicesi di cosa, materiale e no, che assume -secondo il caso- forma o dimensioni diverse. Di problema o questione che ricorre, si ripresenta, e mai si risolve o si aggiusta. È un modo di dire molto usato, così come molto in uso sono troppe coscienze o opinioni politiche alle quali s'attaglia bene questa figura".

Aprile 2004 - Cosa significa in bolognese FELSA? Dovrebbe essere una malattia infettiva. Io ho la varicella e spero di non attaccarla a mia mamma che ha 54 anni e poca voglia di ammalarsi, abbiamo chiesto alla nonna se ha avuto la varicella ma la nonna dice che lei ha preso la FELSA ma nessuno sa dire cosa sia...

Daniele Vitali: Il termine "fêlsa" (o più frequentemente "fêrsa") indica in bolognese tutte le malattie esantematiche, dal morbillo alla varicella, dalla rosolia alla scarlattina, per cui è difficile sapere cos'abbia avuto sua madre da bambina. In ogni modo... in bocca al lupo!

Novembre 2001 - Vorrei sapere il significato del detto "La cunpagnî di trî cunpâgn".

Luigi Lepri: Fa parte di un modo di dire burlesco e canzonatorio usato nei confronti di un gruppo di tre persone e/o amici che vengono così apostrofati: Oh, veh chi é qué, la cunpagnî di trî cunpâgn: al ciû, la zvatta e al barbażâgn! cioè "Oh, guarda chi c'è, la compagnia dei tre compagni: l'assiolo, la civetta e il barbagianni!". Lo scopo dell'espressione sta nel poter assegnare a uno dei tre soggetti senza specificare di chi si tratta, e grazie alla somiglianza dei tre uccelli, la qualifica di barbagianni che come noto è un'offesa e significa pressapoco "non affidabile, rozzo, spaccone, mentitore".

Luglio 2001 - Chi era Cadranèl?

Luigi Lepri: Si tratta di un personaggio d'inizio '900. Cadranèl millantava di essere un fachiro. Arrivò a Bologna con gran battage pubblicitario e si fece rinchiudere in una sigillatissima gabbia di vetro in un locale di Via Ugo Bassi; lì i bolognesi lo andavano a vedere, pagando, perché l'organizzazione mostrando i sigilli affermava che il "fachiro" non mangiava né beveva, sopravvivendo in quel modo per moltissimi giorni. Ma un giornalista si nascose nei pressi e scoprì il trucco. Cadranèl teneva un cacciavite nascosto nell'ano. Quando non c'era nessuno estraeva l'attrezzo, svitava un pannello della gabbia mangiando e bevendo rifornimenti che i complici avevano lasciato nascosti nella sala. Poi rientrava nella gabbia "sigillata" invitando di nuovo il pannello. Il giornalista si era insospettito notando una briciola di pane all'interno. C'è anche il notissimo detto dialettale "al pèr Cadranèl" che significa "è magrissimo" perchè il fachiro per interpretare bene il ruolo si manteneva, appunto, di una magrezza impressionante.


Ala prémma pâgina
Và só